Published On: 20 Novembre 2014Categories: La Rivista

Usare le foto comuni e le interazioni con le fotografie

per aiutare i clienti a prendersi cura delle proprie vite*

di Judy Weiser**, Psicologa, ArteTerapeuta, Fondatrice e Direttrice del PhotoTherapy Centre di Vancouver – Canada

ABSTRACT

Le tecniche di fototerapia usano le foto personali e familiari dei clienti (e i sentimenti, le memorie, i pensieri e le informazioni che queste evocano) come catalizzatori per la comunicazione terapeutica e i processi di cura, di guarigione. Questo articolo discute questo flessibile sistema di tecniche interattive e dimostra come esse possano essere usate da qualsiasi terapeuta qualificato indipendentemente dall’orientamento concettuale di riferimento, dall’affiliazione professionale e dal modello o l’approccio privilegiato d’intervento (o senza riferimento al grado e alla precedente familiarità con la fotografia stessa), come pure dimostra come queste tecniche possano essere di particolare beneficio nella pratica delle artiterapie. Dopo una breve rassegna degli aspetti teorici sottostanti, della comparazione di somiglianze e differenze con l’arteterapia (e la fotografia terapeutica), e un’introduzione alle tecniche in generale, ognuna delle 5 principali tecniche di fototerapia viene presentata ed illustrata con esempi e aneddoti provenienti dalla pratica professionale dell’autore come arteterapeuta, psicologa e formatrice in queste tecniche.

INTRODUZIONE

Le fotografie contengono sempre storie, senza riguardo a qualsiasi merito potenziale artistico che esse potrebbero anche avere, sebbene ogni immagine racconterà naturalmente le sue storie in modo molto differente, poiché ciò dipende da chi sta inconsciamente traducendo e trasportando in esse il significato mentre le guarda.  Questo è ciò che rende le foto comuni non solo un eccellente stimolo di partenza per una naturale conversazione in ambito sociale, ma anche ne fa uno strumento molto utile in situazioni nelle quali la comunicazione attraverso le parole da sola non è sempre sufficientemente efficace (come nella terapia).
I momenti ordinari catturati dallo scatto, così comuni che raramente ci si ferma considerare il processo che si sviluppa internamente quando si  cerca di attribuire un senso a ciò che si sta guardando, non solo illustrano il potere che semplici “usuali” fotografie non artistiche esprimono nella maggior parte delle vite della gente (e dei loro cuori), ma anche aiutano a spiegare la ragione per la quale le fotografie sono così diverse da altre espressioni artistiche mediatiche, specialmente quando vengono usate per scopi terapeutici (o perfino solo per l’autoesplorazione)! sebbene spesso non ci si rifletta in maniera conscia, le fotografie contengono molti più significati di quanto i dettagli contenuti nella loro superficie visuale suggeriscano.
Perfino le usuali, “quotidiane” fotografie sono invisibilmente imprintate e imbevute di emozioni, speciali segreti, e codici simbolici privati che una persona estranea non potrebbe mai pienamente afferrare. Tutte le foto che le persone scattano e tengono, sia per scopi artistici o semplicemente le proprie comuni foto personali o familiari, sono proprio come “specchi della memoria” , che servono come segnali di quello (e di chi) è stato più importante, e più tardi come talismani che trattengono lo svanire del tempo che avanza.
Le persone usano le fotografie per riuscire più tardi ad attribuire un senso a quei momenti. Come impronte delle loro vite, gli scatti personali mostrano non solo da dove le persone vengono (emozionalmente ma anche geograficamente) ma suggeriscono anche in quale realtà potrebbero successivamente trovarsi e tutto ciò  persino quando potrebbero essere non ancora consapevoli di a livello conscio. Qualche volte le persone sentono che hanno scattato una fotografia senza capirne  realmente la ragione fino a molto tempo dopo; qualche volta la fotografia che essi ricordano bene, si mostra in qualche modo differente una volta che viene ritrovata o tenuta tra le mani .
Molti anni fa ho incominciato a notare come le conversazioni della gente riguardo le loro foto di famiglia personali e familiari producevano informazioni su fatti, informazioni emotive che io non sarei stata e non ero in grado di rilevare, facendo al contrario direttamente loro  delle domande. Ho anche scoperto che la stessa cosa capitava quando le persone guardavano le fotografie che avevo scattato e che erano esposte sui muri in casa mia.
Qualche volta ascoltavo discretamente la gente discutere del significato di una fotografia appesa sul muro di fronte a loro, avendone fatto però una interpretazione personale opposta del suo significato. Se non sapevano che io ero  la persona che aveva scattato le foto e che era dietro di loro era spesso possibile ingaggiare con loro una discussione “casuale” circa il perché il presunto  fotografo aveva originariamente scattato quella foto o il perché lui o lei l’aveva selezionata per mostrarla al posto di altre foto possibili.
Come artista era per me intrigante scoprire cosa stavano sentendo e vedendo in riposta ad un’immagine che io conoscevo molto bene- ma che loro ovviamente stavano percependo molto differentemente da come io l’avevo concepita. Ero affascinata dalla dimostrazione degli effetti della percezione selettiva dell’inconscio e ciò prova come molte persone possano ognuna vedere la stessa cosa in modo così differente. Incominciai a capire che non avrebbe potuto mai esserci alcun modo per predirre chiaramente che cosa le persone potevano prendere, percepire da qualsiasi delle mie foto, o quali emozioni potevano evocare in loro come risultato dell’interazione con una particolare immagine.
La parte di me che è un terapeuta era anche intrigata, interessata da tutti gli ulteriori livelli di comunicazione silente che erano stati “accidentalmente imbevuti” attraverso i dettagli visuali della foto, livelli di cui io non ero mai stata conscia al momento dello scatto o della stampa delle foto e che tuttavia sviluppavano un significato per gli altri osservatori.
Così, dalla mia iniziale concezione della fotografia come “arte” ne è risultata un’esperienza dove le fotografie invece servono come catalizzatore non verbale per fare uscire fuori sentimenti e memorie a lungo escluse dalla coscienza. In un secondo momento, risultò quindi  che sia le foto ordinarie, che le foto familiari dei clienti, così come i loro album, potevano essere strumenti potenti nelle mani di coloro che fornivano un’assistenza terapeutica.
Compresi che in tali situazioni la componente artistica nelle fotografie della gente  diventava rapidamente irrilevante, quando il terapeuta incominciava a cercare di individuare il significato interno che ogni fotografia evocava quando qualsiasi cliente la osservava, la scattava, posava, la teneva, o perfino quando la ricordava. Comprendere questo scatenò il mio interesse conducendomi più formalmente a sviluppare queste tecniche in un sistema comprensivo che potesse essere effettivamente usato e diviso con altri.
“Le Tecniche di  Fototerapia” usano le foto personali, di famiglia dei clienti ( e i sentimenti, le memorie, i pensieri e le informazioni che esse evocano) come catalizzatori per la comunicazione terapeutica durante il processo di counseling. In una immagine fotografica (e in tutta la realtà), tutta l’informazione è presente simultaneamente all’ osservatore; è l’essere umano che automaticamente, inconsciamente, fa una scelta di quali imput selezionare, e quale parte di questi ricordare in seguito.
Così, riconoscendo che una fotografia non può avere nessun significato oggettivo separabile da quello di colui che l’ha creata e-o più tardi da colui che la osserva, si può vedere come non ci può essere un modo univoco e corretto a priori per scoprire una qualsiasi assoluta verità riguardo ad essa. Perciò, non è importante ciò che i critici fotografici o i teorici della fotografia proclamano riguardo l’essere in grado di insegnarvi “come trovare i segreti e i significati delle foto di qualchedun’altro”, una particolare fotografia non può mai essere letta come un libro o esternamente oggettivamente destrutturata  fino ad arrivare ai suoi “codici interni segreti” da nessuno, e tantomeno da un terapeuta – in quanto una foto non “mostra”; può soltantosuggerire…  Infatti il risultato potrebbe anche essere piuttosto differente da ciò che si aspettava di comunicare colui che ha fatto la foto, dal momento che ogni partecipante in un’interazione foto-persona ha il proprio punto  di vista (corretto per se stesso).
Dal momento che gli scatti personali e gli album di foto sono metafore visuali di un momento reale di “esperienza di vita” (capaci quindi di catturare qualsiasi sentimento “grezzo”  presente al momento dello scatto), possono essere di valido aiuto ai clienti nel ricordare, confrontare, immaginare, ed esplorare parti complesse di se stessi, delle loro vite, e specialmente dei loro sentimenti. Usare le loro stesse fotografie (o perfino solo le loro reazioni alle immagini di altri) come un ponte nel proprio “inconscio personale”, fornisce ai clienti anche un sostegno aggiuntivo nel processo di rapportarsi con pensieri, sentimenti e memorie, ricordi, che spesso sorgono con inaspettata intensità quando le fotografie sono usate come lente di ingrandimento.
Molto semplicemente le cinque tecniche base di fototerapia sono direttamente correlate a varie relazioni possibili tra la persona e la macchina fotografica ( o la persona e la fotografia)- sebbene in pratica queste categorie spesso si sovrappongono. Queste tecniche sono brevemente riassunte sotto, e le successive sezioni dell’articolo forniranno maggiori informazioni e casi riguardo ognuna di esse individualmente:

  • Foto che sono state scattate o create dal cliente, sia che il cliente le abbia realizzate con una macchina fotografica, o che si sia appropriato delle immagini scattate da altre persone attraverso il collezionare o trovare foto da riviste, cartoline, siti internet, con manipolazioni digitali e così via;
  • Foto del cliente in cui il cliente è stato ritratto e che sono state scattate da altre persone, sia che il cliente sia in posa o sia che il cliente sia stato ritratto spontaneamente, mentre era inconsapevole di essere fotografato- ma dove persone diverse dal cliente hanno preso tutte le decisioni circa il momento, il contenuto, il luogo, e così via della fotografia;
  • Autoritratti, il che significa qualsiasi tipo di foto che il cliente ha fatto di se stesso, sia letteralmente o metaforicamente- ma dove in ogni caso i clienti hanno mantenuto il totale controllo e potere su tutti gli aspetti della creazione dell’immagine;
  • Gli album di famiglia ed altre collezioni fotobiografiche, sia della famiglia di nascita che della famiglia di scelta; sia foto che sono state formalmente raccolte in album o più “semplicemente” combinate in forme narrative, narrazioni, attraverso il collocamento sui muri, sui frigoriferi, sulle porte dei frigoriferi, dentro ai portafogli o cornici sulla scrivania, sugli schermi del computer o sul web-site di famiglia, e così via- foto che sono state messe insieme con lo scopo di documentare la personale narrazione della vita del cliente ed il retroterra dal quale essi provengono/ provenivano, si sono sviluppati. Questi album hanno una “vita”, una vita separata, e molto oltre le immagini individuali che li compongono;
  • La tecnica finale, “Foto-Proiettiva” è basata sul fatto che il significato di ogni foto è primariamente creato dall’osservatore durante il processo di osservazione (o durante il processo di realizzazione o perfino solo durante il processo di ideazione di essa), e così possibile all’ interno del setting di consultazione un uso potenziale di qualsiasi fotografia che attira l’interesse del cliente o del terapeuta.
    Questa tecnica attualmente sta alla base di  tutte le interazioni persona-fotografia e tratta dei modi e dei motivi per le quali si trae qualsiasi significato da ogni fotografia fino dal primo momento. E’ chiamata “proiettiva”, nel senso che il significato viene sempreproiettato in un oggetto fotografico quando la si osserva, piuttosto che, al contrario, qualcosa scateni universalmente lo stesso oggettivo significato in tutti gli osservatori. Perciò, questa tecnica non risiede in un particolare tipo di fotografia, ma piuttosto nella meno tangibile interfaccia tra la foto ed il suo osservatore (o creatore), che a sua volta  “risiede” all’interno di ogni persona, dove ognuno sviluppa la propria unica risposta a ciò che vede. Questa  tecnica è quindi ,più una parte integrante delle altre quattro piuttosto che una tecnica indipendente, a se stante, tuttavia deve essere discussa separatamente (e preferibilmente insegnata per prima nel caso della formazione dei terapeuti).

In generale, ogni tipo di interazione foto-persona (tecnica) ha i suoi specifici benefici e limitazioni, ed ognuna può essere sviluppata non solo singolarmente, ma anche in combinazione con gli altri tipi di tecniche, come pure può essere combinata con altri tipi espressivi di media artistici (vedere la figura 1 e 2) o altre immagini di cui ci si è appropriati, per rafforzare ulteriormente il processo terapeutico. Una che si siano padroneggiati e appresi questi strumenti aggiuntivi, il terapeuta pur proveniente da qualsiasi area nel campo della salute mentale può sviluppare il proprio personale approccio in relazione  alla propria particolare tipologia di clienti o per il proprio particolare setting.

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Figura 1 ©2004, copyright Judy Weiser Figura 2©2004, copyright Judy Weiser

Dal momento che le tecniche fototerapeutiche sono una collezione di strumenti aggiuntivi “attivanti”, piuttosto che direttive fisse basate su una sola specifica modalità teoretica, o paradigma terapeutico, esse possono essere usate da qualsiasi tipo di terapista riconosciuto senza riguardo all’orientamento concettuale, alla affiliazione professionale, al modello/approccio di intervento preferito. Condurre e realizzare una buona terapia, farla bene, è esso stesso un’arte- un’arte che necessita del maggior numero possibile di strumenti di intervento efficaci per aiutare il cliente in modo da massimizzarne i benefici.

Motivazioni per l’uso delle fotografie in terapia

Conservare una fotografia non è soltanto tenere un pezzo di carta; Risulta essere qualcosa di più, e cioè  un momento di tempo, tenuto, e che è stato congelato per sempre. Quello che viene visto su questo pezzo di carta molto piccolo è percepito tridimensionalmente, come se fosse “vivo” ed esistente “proprio ora” (anche se è stato creato molto tempo fa). L’osservatore è , all’interno dello spazio e del tempo di quell’immagine, come se esso stesso fosse realmente e fisicamente presente là. E’ come se gli osservatori fossero la macchina fotografica stessa, o per lo meno fossero i fotografi, che hanno catturato quel momento nella memoria permanente.
Dal momento che la scena in ogni fotografia è spesso percepita come se fosse gli occhi stessi della persona che guarda, l’osservatore è solitamente non consapevole che una macchina fotografica ha mediato il loro processo di “vedere”. La mente di una persona non separa “il percepire i contenuti visuali di una fotografia” dal vedere i fatti visivi stessi. Ciò conduce ad una qualità di “prova” dell’artefatto fotografico che è certo, mentre tuttavia allo stesso tempo anche completamente falso.
Per questa ragione una fotografia diventa facilmente un naturale “oggetto transazionale”, che collega le realtà senza che il suo osservatore si renda conto che questo sta capitando. Gli osservatori automaticamente, inconsciamente, ottengono il salto cognitivo di equiparare il fatto di guardare la foto con l’essere loro stessi in quella scena attuale- e così  conseguono una interna certezza che la macchina fotografica non ha e non avrebbe potuto, mentire (perché essa ovviamente ha scattato una fotografia di ciò che “realmente” stava succedendo proprio là, proprio allora, proprio di fronte alle lenti). Con l’eccezione che… una macchina fotografica non ha scattato la fotografia; una persona ha fatto questo.
Una fotografia, allora, ha la qualità speciale di essere simultaneamente una realistica illusione e una realtà illusoria, un momento catturato all’interno del tempo, un momento che tuttavia non è  possibile totalmente catturare nella sua forma pura. Le persone usano la pellicola per fermare il tempo, che naturalmente non può essere fermato. Le fotografie sono quindi emozionalmente “caricate” come se si trattasse di schizzi o appunti elettromagnetici, e così non è mai possibile guardare le proprie foto personali in modo distaccato. Qualcuno una volta mi ha detto che una foto era carta con ”emozione spalmata su di essa”; naturalmente egli intendeva “emulsione”, ma questa immagine è rimasta con me.
Ogni foto è solo un semplice pezzo di carta con alcune gocce di sostanza gommosa e appiccicosa su un lato, tuttavia i sentimenti di cui è imbevuta sono intensamente complessi. Questi piccoli pezzi di carta sono potenziati da una sorta di “pre-coscienza” molto al di là del loro apparente tangibile valore come fatti artistici; il loro significato risuona per le persone, dalle persone, dal passato al futuro. E’ naturale che le persone trattino questi artefatti visivi come se fossero pieni di vita, suscitando sentimenti di lutto quando vengono perse, inviandole ad altri  quando non c’è la possibilità di esserci di persona, e creandoli per lo speciale obiettivo di mantenere alcune memorie vive,  per sempre.
Questi aspetti sono cruciali per capire perché (e come) le fotografie possono essere così utili come strumenti di cura: permettono il complesso esame di porzioni di tempo congelate per sempre sulla pellicola come “fatti”, e tuttavia allo stesso tempo permettono a una infinita varietà di “realtà” di essere rivelata ogni volta che la stessa foto viene osservata.
In questo senso, ogni foto ha storie da raccontare, segreti da mostrare, da condividere  e memorie da portare alla luce, se solo ciò viene chiesto. Tale informazione è latente in tutte le foto personali dei clienti, ma quando ciò viene usato per focalizzare e attivare il dialogo terapeutico, solitamente ne risulterà una maggiore diretta e meno censurata connessione con l’inconscio.
Le fotografie che le persone prendono (o collezionano come cartoline, poster, cartoline di saluti, pagine di riviste, immagini dal calendario e così via) comunicano qualcosa  di loro stessi, anche, perché queste immagini sono  state fatte o raccolte precisamente perché qualche aspetto di quel momento era abbastanza importante da motivarne la conservazione  la collezione o la raccolta. Perciò, viste come una collezione, le fotografie che le persone raccolgono e tengono con sé costituiscono quasi un “autoritratto”, un’immagine dei loro possessori, dal momento che di solito nessuno terrebbe intorno a sé fotografie che non piacciono, o quelle a cui non si da importanza. Le foto che vengono conservate in virtù dei loro speciali significati esprimono molto circa la vita dei loro possessori, cose che potrebbero essere espresse con maggiore profondità se solo ulteriormente indagate. Chi scatta una fotografia sta cercando di realizzare un ricordo permanente di un momento speciale (ed è speciale perché il fotografo lo vede come tale; forse nessun altro lo farebbe). Se la foto viene “bene” è perché soddisfa le aspettative di chi l’ha scattata; se non viene bene, probabilmente ci sarà qualche idea riguardo a ciò che “non è andato”.
Quando si posa per le foto, perfino quelle realizzate tramite l’ autoscatto, si ha di solito una certa idea di come la fotografia finale  (“dovrebbe”) sembrare, e queste aspettative riflettono come si vorrebbe essere percepiti dalle altre persone nella vita reale. Perciò, fare domande riguardo alle foto in cui si è ritratti può essere un buon modo per conoscere il sistema interno di valori con le relative credenze , il sistema di autovalutazione, i giudizi personali che caratterizzano ogni persona. Ed è infatti a partire  da ciò che gli individui valuteranno aspettative e comportamenti che riguardano la propria vita.
Frequentemente, nel processo di fototerapia, le spiegazioni del cliente riguardo al vero significato di  una particolare foto risultano essere meno rilevanti del perchè essi considerano questo significato come vero (e come essi danno per certo che questo significato sia vero). Si può imparare molto quando i clienti esprimono il significato emozionale che attribuiscono alle foto, oltre al significato che queste hanno per loro visivamente.
Nel riguardare le loro foto personali e familiari, o ascoltando le risposte di altre persone a queste immagini, i clienti spesso imparano cose di se stessi di cui non erano del tutto consci nel momento in cui per la prima volta hanno guardato, acquisito o scattato le fotografie. Cose che sono più tardi ovviamente visibili, erano solo potenzialmente “là”, al momento in cui il tempo è stato fermato dallo scatto fotografico. Tutto ciò può essere usato a vantaggio terapeutico da un terapeuta che conosce come usare in modo appropriato l’interazione tra i clienti e le loro foto personali e familiari in modo da aiutarli a “realizzare una migliore immagine” della loro vita.
La costruzione, l’immagine interna di sé è ciò che inquadra e assegna significato alla realtà. Il modo in cui le persone credono che il mondo sia, influenzerà e filtrerà qualsiasi cosa che entra ed esce dalla loro mente. Così, il non fare uso dello studio delle fotografie che i clienti possono scattare, collezionare, trovare significative e venir prodotto dagli stimoli inconsci durante la terapia, lascerà certamente al di fuori una incredibile quantità di informazioni necessarie a lavorare con importanti “costrutti personali”.
Da questa acquisizione diventa ovvio che sarebbe “sprecato” da parte di qualsiasi terapeuta che voglia aiutare i pazienti a rafforzare la loro autostima o  ad esplorare come essi si presentano agli altri, non utilizzare sia i propri autoritratti che fotografie scattate da altre persone, in modo da  aiutarli ad autoconfrontarsi e analizzare qualsiasi dissonanza che possa essere alla base delle loro difficoltà.
In modo simile qualsiasi terapeuta che interagisce solo verbalmente con i pazienti nel cercare di aiutarli a trovare un senso nelle narrazioni della loro vita (ovvero le storie che essi usano per costruire le loro identità e spiegare i loro problemi) perderebbe molte opportunità nel non esplorare anche le fotografie di famiglia e gli album.
E qualsiasi terapeuta che vuole aiutare i pazienti a riscoprire di più su ciò che li differenzia in quanto individui separati dal loro sistema familiare, dai contesti culturali o dai ruoli assegnati dalla Società e dalle aspettative, deve ricordare che tutte queste informazioni si possono trovare nelle loro istantanee e negli album.
In sintesi i terapeuti che sono in grado di considerare le fotografie dei loro pazienti come punti di partenza, piuttosto che prodotti finiti, e che possono usare queste fotografie  per iniziare domande aperte, per esplorare sentimenti, atteggiamenti e credenze, e stimolare espressioni creative ulteriori, che danno una forma più chiara allo sviluppo inconscio profondo, scopriranno molto più dei loro pazienti di quanto avrebbero potuto imparare senza usare queste fotografie familiari e personali come strumenti attivanti. E’ un procedimento in continua evoluzione: non importa quanto grande sia la fotografia, essa rimane una porzione di una fotografia ancora più grande della vita situata  nello spazio e nel tempo, e i significati che vi si attribuiscono aumentano sempre più con l’aumentare dell’interazione con la fotografia.
Credo che tutti gli arteterapeuti hanno bisogno di sapere cos’è la fototerapia e che essa esiste,  sia che decidano di usare o meno personalmente questa tecnica. Io credo che il non sapere abbastanza delle tecniche di fototerapia per fare una scelta informata non è più accettabile nella pratica o nella formazione in arteterapia – e condurrà ad una competenza di arteterapia solo parziale, specialmente in questa epoca di immagini digitali e di pazienti informatizzati…
Il resto di questo articolo fornirà  una discussione più dettagliata su ciascuna delle cinque principali tecniche di fototerapia analizzate una per una (e spiegherà come funzionano al meglio quando usate in modo interattivo), oltre al fornire ai lettori  una guida su come accedere ad informazioni addizionali come  letture raccomandate, liste di tesi di studenti sulla materia,  siti web correlati ,contatti con altri praticanti con cui a cui è possibile collegarsi e opportunità formative .

Le tecniche della Fototerapia (con esempi)

La fototerapia non consiste nell’ interpreatazione delle fotografie per conto e al posto dei pazienti. L’ input, al contrario, dovrebbe sempre provenire dal paziente stesso, stimolato dalle foto, guidato dalle domande terapeuta, mentre esplorano insieme l’immagine (ed il suo impatto emozionale) . Le percezioni (ed i sentimenti associati) che ciascuna fotografia fa scattare nel paziente (o nel terapeuta) saranno personalmente uniche.E dal momento che non esiste un modo decisamente sbagliato di interpretare il significato di una qualsiasi foto, nessun criterio interpretativo esterno può essere mai usato per valutare “oggettivamente” o misurare la percezione della fotografia da parte del paziente. I terapeuti, naturalmente, sono i benvenuti nell’offrire le proprie percezioni riguardo ad una fotografia come mezzo di confronto, fintanto che la loro versione non venga presentata come l’essere in qualche modo migliore, o più corretta di quella del paziente.
In modo simile, la reazione di una persona ad una foto non può, di per sè, indicare alcun problema diagnostico definito o una specifica condizione mentale e quindi non si dovrebbe mai giungere a conclusioni generalizzate a partire dai responsi singoli ed individuali. Al contrario i terapeuti addestrati nelle tecniche di fototerapia sono formati per cercare gli schemi sottesi alle risposte, i temi ed i pattern ricorrenti, le ridondanze attraverso il tempo (e spesso attraverso le generazioni), il contenuto insolito o simbolico, e soprattutto le reazioni emozionali indicanti sentimenti interiori di cui i pazienti possono o non possono essere coscientemente consapevoli al  momento dell’incontro con il catalizzatore fotografico.
Fare foto, o portarle con sé alla sessione terapeutica, è solo l’inizio. Una volta di fronte alla  fotografia, il passo successivo è attivare tutto ciò che essa porta alla mente, esplorando i suoi messaggi visuali, sviluppando un dialogo con essa, ponendo delle domande, considerando i risultati di cambiamenti immaginati o di diversi punti di vista, utilizzando strumenti a mediazione artistica aggiuntivi per “ottenere una immagine migliore ” di ciò di cui tratta la fotografia e così via. Quindi, ciò che per i fotografi è di solito un punto di arrivo (la foto finita) è per gli scopi della fototerapia solo il punto di inizio. 
Una volta che la fotografia è lì a disposizione, il terapeuta inizia a fare semplici domande “leggere” che dirigeranno l’ attenzione del paziente più profondamente verso se stesso, o viceversa verso il suo mondo esterno, domande quali: “qual è la storia di questa foto?”; “come è arrivata ad essere scattata?”; “contiene un qualsiasi significato per te? E se sì, quale?”; “quali altre cose (pensieri, memorie, sentimenti) ti vengono in mente quando la guardi?”; “che tipo di persona ha scattato questa foto?”; “perché lui o lei ha scelto quel particolare momento  e quel particolare soggetto?”, “se tu potessi cambiare qualche parte di questa foto; quale potrebbe essere, e perché?”; “che cosa potrebbe domandare la fotografia o dire, se potesse parlare?”; “vuoi raccontare o chiedere qualcosa alla fotografia?”; “ti ricorda di altre fotografie che sembrano “andare insieme”?”; “che cosa piacerebbe o non piacerebbe a tua madre, padre, moglie o partner di questa fotografia?”; “che cosa direbbe la gente delle  tue risposte a queste domande?”; e così via. Naturalmente, non saranno solo le risposte effettive che saranno  valutabili terapeuticamente, ma anche l’intero processo di ciò che accade durante il percorso di scoperta delle motivazioni che stanno alla base di quelle risposte (ad esempio, il valore terapeutico sta più nel “perché” che nel “che cosa”). Questo perché l’interazione con le fotografie spesso rivela  informazioni preziose addizionali, e con un contenuto emozionale aggiuntivo, quasi come prodotti secondari “accidentali” nel processo investigativo in cui si è impegnati.
Durante le sessioni fototerapeutiche, non si riflette solo passivamente sulle fotografie in una contemplazione silenziosa, ma vengono anche attivamente create, ci si mette in posa, ci si parla, ci si ascolta, si ricostruiscono per dare vita o illustrare  nuove possibilità narrative.Le foto vengono raccolte sulla base di specifici compiti che il terapeuta assegna , rivisualizzate mnemonicamente o con tecniche immaginative, combinate con altre attività di arteterapia o anche collocate in un dialogo animato con altre fotografie . Il  mio paziente ed io, ci concentriamo insieme sull’immagine fotografica e cerchiamo di diventare più coscienti di ogni singolo simbolo visivo che sembra emergere. Esploriamo la foto interagiamo unitamente con essa. La “lavoriamo”,  e mentre cerchiamo di integrare le parti interne ed esterne del sè, conversiamo per tutto il tempo a diversi livelli simultaneamente. Quindi, non è solo il contenuto visuale delle fotografie stesse, ad essere così importante terapeuticamente, ma anche tutto ciò che accade mentre il paziente sta interagendo con loro. Memorie, sentimenti e pensieri, che emergono durante il dialogo fotografico, possono talvolta essere più rilevanti terapeuticamente delle reazioni legate all’immagini stesse.
Ogni terapeuta che utilizza le tecniche di fototerapia le userà naturalmente in modo un po’ diverso, a seconda della formazione personale dal riferimento teorico ,  o anche a seconda di ogni obiettivo , bisogno o situazione terapeutica particolare . Numerose pubblicazioni ne dimostrano le applicazioni attraverso una ampia varietà di situazioni e di popolazioni di pazienti . Il modello a cinque tecniche presentato qui sotto contiene, racchiude tutte queste applicazioni, in un formato semplice e facile da concettualizzare e dimostra come esse funzionino meglio quando combinate sinergicamente.
Come le dita di una mano (inseparabili da essa) le tecniche seguenti dovrebbero essere viste come parti di un sistema olistico intercorrelato ed interdipendente piuttosto che come parti distintamente separate, e dovrebbero essere usate interattivamente, piuttosto che in passi individuali che seguono un qualche particolare ordine predeterminato. Quindi, non c’è un solo modo corretto prestabilito per utilizzare queste tecniche (fintanto che il paziente è trattato eticamente), né si deve applicarle in nessuna sequenza o combinazione particolare. Poiché le parti distinte di questo sistema correlato sono così intrecciate, è piuttosto difficile insegnarle una per una; tuttavia devono essere temporaneamente separate in modo da spiegare come ciascuna funziona (e perché).
Le descrizioni seguenti possono naturalmente solo fornire una breve visione complessiva, e dare giusto qualche esempio illustrativo, ma è importante sottolineare come queste tecniche si possano apprendere meglio all’ atto pratico, eseguendole nell’ambito di un addestramento esperienziale , in modo da imparare che effetto hanno su stessi, prima ancora di iniziare ad usarle con un paziente :

1- Fotografie che sono state scattate o create dal paziente:

Poiché ogni fotografia è anche una sorta  di autoritratto che riflette il suo fotografo, ognuna segretamente contiene anche informazioni circa la persona che l’ha scattata. Che sia fatto coscientemente o meno, ogni decisione sul dove, quando, chi, come, e, più importante di tutti,perché fare (o mantenere) una fotografia particolare ha il potere di comunicare tanto riguardo il suo creatore quanto circa il soggetto che si sta riprendendo.
In aggiunta al lavorare con le fotografie che i pazienti hanno scattato con la propria macchina fotografica o che hanno portato in terapia dalla loro collezione personale di immagini “ritrovate”, questa tecnica può anche includere il lavorare con le fotografie che sono state fotocopiate, incollate, create digitalmente, scannerizzate elettronicamente, o comunque preparate per essere “manipolate”. I terapeuti non solo esplorano i “fatti” delle fotografie dei loro pazienti, ma cercano anche schemi più ampi di temi ripetuti, simboli personali e metafore, e altre informazioni visuali di cui il paziente potrebbe essere inconsapevole al momento dello scatto della foto.
Sia che i pazienti portino fotografie già scattate di propria iniziativa, o su richiesta del terapeuta, queste possono essere utilizzate per far convergere la discussione su aspetti della loro vita che vanno al di là di  ciò che appare nelle loro foto. In aggiunta al lavorare su  fotografie preesistenti che i pazienti portano con sé nella sessione, i terapeuti possono anche predisporre riprese fotografiche del paziente più attive o assegnare compiti “per casa” su misura per certi obiettivi specifici o tematiche su cui si vuole che il paziente lavori con maggiore profondità.
Non occorre che i compiti fotografici assegnati siano strettamente focalizzati, perché “pescare con una rete larga” spesso porta ad una migliore “pesca”. Permettere ai pazienti di fotografare solo ciò li colpisce, dà ai pazienti un maggiore controllo sui aspetti sconosciuti ed inattesi. Il far venir “fuori” da loro stessi, fornisce loro un migliore punto di vista da cui esplorare sentendosi più sicuri, come dimostrano i seguenti esempi .

Esempio A (fotografie scattate dai pazienti spontaneamente e usate successivamente in modoriflessivo):

L’esperienza di una donna dimostra come le fotografie che aveva scattato si erano improvvisamente ed inaspettatamente trasformate anche in comunicazioni potenti che la riguardavano personalmente, una volta fermatasi a considerare i significati connessi ai messaggi segreti metaforici. Mi disse che dopo aver guardato le prove di balletto della sua giovane nipote, lei aveva deciso di portare con sé la macchina fotografica alla recita e di scattare tante fotografie perché i bambini “erano tutti così carini da guardare”. Essendo sia una zia coinvolta che anche una fotografa artistica dilettante, utilizzò tre rullini di pellicola, fotografando non solo  sua nipote, ma anche molti altri bambini che si stavano concentrando molto sul ballare bene. Disse che le era  piaciuta l’esperienza e che aveva fatto diverse stampe per i membri della famiglia (come nella figura 3 ), come pure per sua nipote, la quale le aveva apprezzate. Menzionò che sua nipote aveva eseguito bene il balletto e che con il sollievo di tutti, la bambina non aveva pasticciato o fatto niente che potesse metterla in imbarazzo.. Quando le chiesi perché aveva aggiunto quell’ultimo commento, e se la perfezione della performance avrebbe avuto così importanza nella vita di una bambina di 5 anni, lei fece una pausa a pensare per un momento e rispose,
“sai, ho scattato tre rullini di foto per documentare l’evento e la maggior parte di queste sono risultate essere immagini goffe della tensione e della goffaggine di quelle bambine che si erano esibite. Nella mia tradizione familiare, le ragazze venivano automaticamente costrette ad andare subito a scuola di balletto. Io sono alta di corporatura,…ed ero larga ,ero un maschiaccio terribile, e mettermi addosso quel tutù una volta alla settimana proprio non mi divertiva affatto. Infatti, l’intera esperienza era proprio traumatica…e, ho completamente soppresso quella parte della mia infanzia  e non ci ho pensato fino a questo momento…non ho mai sentito di appartenere…ero così gigantesca in confronto a tutte le altre ragazzine in quella scuola di ragazzine snob, altolocate, a cui i miei genitori mi mandavano. I sentimenti sono semplicemente emersi quando li ho collegati a queste fotografie di balletto e alla tensione e la goffaggine” che mostravano.

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Figura 3 ©2004, copyright A.R./ Judy Weiser

 Continuammo a parlare di come si sentiva e a ciò che ci si aspettava da lei bambina nella sua famiglia e quali aspettative le erano state date dalla società circa il modo in cui avrebbe dovuto comportarsi.
Tentammo di collegare quei primi “insegnamenti” alla situazione della sua vita attuale, all’essere una donna professionista single, nel mezzo di un mondo che sembrava avere numerose aspettative su di lei. Le sue fotografie innocenti, scattate inizialmente per motivi “carini” avevano, nella loro successiva decostruzione ed esame, portato alla coscienza numerose connessioni precedentemente inconsce dal suo passato.

 

Esempio B (fotografie di pazienti scattate attivamente, come compito):

Ruth aveva 9 anni e aveva vissuto in affido per gli ultimi 5 anni (dove era stata collocata in seguito ad  un abuso fisico e sessuale da parte di suo padre, e alla trascuratezza affettiva da entrambi i genitori di nascita). Come suo counselor da diversi mesi avevo scoperto che Ruth era cooperativa e abbastanza disponibile al colloquio, ma la sua comprensione dei rapporti emozionali, e l’espressione dei sentimenti in generale, mi apparivano essere molto limitati e bloccati.
Sua madre adottiva era piuttosto preoccupata. Era appena tornata a lavorare qualche mese prima  che la sua bambina fosse abbastanza grande per l’asilo, e portò Ruth da me percependo che stava crescendo e diventando sempre più distante da lei. Qualunque cosa io chiedessi a Ruth, non riuscivo ad ottenere nessuna informazione verbale che mi avrebbe aiutata a capire. Rispondeva alle domande , ma in modo cordiale e neutrale. Non riuscivo proprio a tirar fuori ciò che stava causando tutto la sua confusione emozionale ed il dolore e lo sgomento che stava dimostrando a casa, ma non avrebbe parlato con nessuno (non poteva),  e qualunque fossero le difficoltà, mi era ovvio che Ruth non ne era probabilmente consapevole.
Scoprendo che a lei piaceva fare le fotografie con la sua semplice macchinetta “automatica”, le avevo assegnato dei compiti fotografici. Sapendo che stavamo trattando di sentimenti e di rapporti emozionali, in modo particolare quelli che riguardavano lei   e la sua madre adottiva, gli avevo assegnato come compito  di andare al giardino locale e scattare fotografie alle persone di tutte le età. In modo particolare le avevo chiesto di scattare fotografie di “madri” perché volevo scoprire come lei percepiva/definiva le “madri”, quelle “brave” e quelle “cattive”, le relazioni da cui veniva attratta e quelle da cui non veniva attratta, come pure qualsiasi altra informazione casuale che poteva sorgere.
Le fotografie che Ruth portò al seguente appuntamento mostravano una ampia varietà di persone, soprattutto femminili. La maggior parte erano bambini che giocavano mentre le loro mamme guardavano nelle vicinanze: madri con neonati in carrozzina o in marsupi, madri che spingevano altalene, madri che parlavano con ragazze giovani (o anche adolescenti), ma Ruth non mi aveva portato nessuna fotografia che ritraesse gruppi piccoli o individui soli, senza un adulto femminile nella vicinanza.
Io guardai tutte le fotografie, e spostai l’ attenzione su  alcune donne raffigurate in altre fotografie, ma che erano sole o soltanto con adulti, e chiesi della loro “condizione materna”. La risposta secca di Ruth mi rivelò degli indizi su ciò che stava accadendo nella sua mente, sebbene fuori dalla sua stessa consapevolezza:”Quelle non sono affatto madri, oppure sono madri cattive,  perché non hanno con sé i propri bambini”.
A posteriori io potei capire come questa ragazza con un’infanzia abusata aveva percepito se stessa come molto vulnerabile ed insicura nel passato quando sua madre non le era stata accanto per proteggerla. E’ possibile che essa avesse interiorizzato come abbandono il fatto che la madre adottiva avesse affidato il bambino all’ asilo piuttosto che tenerlo con sè ogni giorno. Le ripercussioni furono fortissime anche per Ruth, poiché la sua madre adottiva non era con lei tutto il tempo- e Ruth ovviamente aveva ragioni per sentirsi ansiosa riguardo alle madri che “non erano lì” per i loro bambini. Le fotografie indicavano la via per l’ apertura del dialogo e della comprensione tra di noi.

2- Fotografie del paziente che sono state scattate da parte di altre persone:

Le fotografie che vengono scattate da altri permettono di capire il modo in cui si è visti ( ed anche come si appare  a se stessi quando non è uno specchio a rifletterci). Le persone raramente si prendono tempo per considerare come comunicano in modo visivo e consapevolmente le informazioni su se stessi a chi li guarda (o guarda le loro fotografie), tuttavia molti di questi “messaggi silenziosi” influenzano direttamente l’idea che gli altri si fanno di loro. In una propria fotografia, le persone sono frequentemente sorprese di vedere un “sé”  alquanto diverso da quello che pensavano di star mostrando agli altri.
Può essere terapeuticamente utile per le persone confrontare fotografie di se stessi in posa con fotografie di se stessi non in posa, come pure fotografie di sé scattate da diversi fotografi, in modo  da vedere le differenze tra le immagini (e le percezioni) che i diversi fotografi hanno di loro – e ciò potrebbe rivelare qualcosa riguardo ai diversi tipi di relazione che essi hanno con ciascun fotografo coinvolto. Potrebbe anche valer la pena esplorare quanto una persona altererebbe il proprio comportamento usuale, l’aspetto, il linguaggio corporeo se improvvisamente diventasse consapevole che qualcuno lo sta fotografando, proprio in quel momento.
Rispetto alle tecniche di fototerapia di autoritratto, in cui i pazienti lavorano con fotografie scattate da soli, questa tecnica implica fotografie in cui qualcuno di diverso dai pazienti ha deciso quando, dove, come, perché (e anche se) fare la fotografia- in questo modo il paziente controlla meno come verrà la foto, anche se è in posa.
Le fotografie dei pazienti rappresentano in modo tangibile la dinamica di potere tra loro in quanto “soggetti” ed il fotografo, che li ha resi  (volenti o nolenti) “oggetti” della sua attenzione tramite la macchina fotografica. I termini “soggetto” ed “oggetto” acquistano molteplici significati quando una persona “si impossessa” di un’altra (ed ha un potere su di lei) tramite la sua fotografia.

Si può anche dare come compito ai pazienti di farsi nuove fotografie o di farsi fotografare da ciascuno dei loro amici o da ciascun membro della famiglia, e poi di fotografarsi da soli insiemecon queste persone singolarmente. Le loro fotografie da soli possono essere confrontate con le loro fotografie insieme ad altri, e le fotografie spontanee con quelle in posa. Le fotografie scattate negli studi professionali possono essere studiate non solo “così come sono”, ma anche, se richiesto, rifatte da capo per esplorare qualsiasi cambiamento nel corso della terapia.

Esempio:

Una donna mi disse che aveva deciso di rompere con il suo ragazzo perché

C’era stata troppa manipolazione da parte sua nel passato,  perché io fossi in grado di interpretare qualunque cosa da parte sua come qualcosa di diverso dalla manipolazione…pensava che ci saremmo dovuti sposare subito, senza aspettare, perché non voleva rimanere da solo dopo il suo divorzio. Non mi ci volle molto per capire che lui era totalmente incapace di scegliere un’altra persona…consumò tutta la mia pazienza e la mia carica emotiva, e sai cosa? Una delle cose che mi sollecitarono a prendere la decisione definitiva di non avere un legame stabile con lui fu la consapevolezza improvvisa che in ogni fotografia insieme, scattata da altre persone o con l’autoscatto, lui stava afferrando il mio collo, in modo possessivo, soffocante ed insicuro. Ogni maledetta fotografia…Mi sentivo sempre sotto tensione, del tutto svuotata della mia energia, che usavo per rassicurarlo. I miei amici facevano commenti sulle foto, (dicendo), cose come, “certo, come ti sta appiccicato”, ma in effetti non li capivo. Mi sono resa conto di tutto questo solo quando ho sparso tutte le fotografie sul mio copriletto e le ho viste tutte insieme, tutte in un colpo, wow…

3- Autoritratti:

Le fotografie che le persone si fanno da sole, senza alcuna interferenza esterna (ad esempio, gli “autoritratti”), permettono di esplorare chi sono quando nessuno le osserva, le giudica o le tiene sotto controllo. Sia che queste foto siano scattate durante la seduta di counseling, sia che siano scattate o collezionate come “compito per casa”, ogni immagine sarà un’esplorazione autonoma non contaminata dall’esterno di alcuni aspetti di se stessi.
Dal momento che tematiche inerenti l’autostima, la conoscenza, la fiducia e l’accettazione di sé sono alla base di molti dei problemi dei pazienti, vedere se stessi in modo naturale, senza l’influenza di altri, può essere molto potente e terapeuticamente benefico. Visto che gli autoritratti rendono possibile un confronto diretto di tipo non verbale con se stessi, si può incoraggiarne l’utilizzo. Essi sono tipi di fotografie che fanno scaturire in modo rischioso le emozioni del paziente ed è proprio per questo che sono utilizzati in terapia come attivatori veloci ed efficaci per un lavoro in profondità.
Se guidati attentamente nei momenti forse di maggiore vulnerabilità, quelli di incontro col sé, quando è difficile utilizzare la razionalizzazione come difesa (perché non c’è nessun altro “lì” cui dare la colpa), i pazienti possono utilizzare le proprie fotografie per stabilire un dialogo interno e valutare l’effetto che questo ha su di loro, senza doverne rendere conto a nessuno.
E se a condurre tali incontri “faccia a faccia” è un terapeuta consapevole delle tematiche personali del paziente, si può veramente ottenere una “fotografia migliore” del paziente stesso.

Esempio:

Lee era sieropositivo da più di sette anni quando si era messo in posa per questa fotografia. (fig. 4).

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Figura 4 ©2004, copyright Judy Weiser

L’aveva fatta scattare da un amico, che aveva il ruolo di “autoscatto umano”. Aveva predisposto una macchina fotografica e per mezz’ora aveva attentamente provato le varie pose, dicendo all’amico il momento giusto in cui scattare la foto. Una volta sviluppato il rullino, si era fatto stampare la sua fotografia preferita in formato grande e l’aveva incorniciata per tenerla accanto al letto. A parte quel suo amico, Lee non aveva mai mostrato quegli autoritratti a nessuno, ad eccezione del suo terapeuta, che iniziò a vedere per fare del counseling quando si rese conto che era arrivato il momento di iniziare a fare i conti con l’avvicinarsi della sua morte (che poi si è verificata).
Spiegò,
quando ero un bambino, la mia vita era bella. Mi tenevano pulito, caldo e mi nutrivano. Ricevevo amore incondizionato dai miei genitori. La mia vita era senza preoccupazioni e dolce. Scoprii per la prima volta che ero stato infettato dall’HIV nei primissimi tempi della malattia, quando nessuno sapeva ancora che cosa fosse e molto meno come prevenirla. Così non sapevo nemmeno che mi stavo mettendo a rischio. Quando mi dissero che ben presto sarei peggiorato per l’AIDS e che sarei morto, ebbi un brivido freddo lungo tutto il mio corpo. Il mio cuore raggelò di paura. Mi sentivo come se fossi stato violentato. Era un mucchio di sentimenti veramente terribili e proprio non era giusto – perché io non sapevo niente (di tutto ciò), perché se l’avessi saputo mi sarei protetto.
Di cosa parla questa fotografia? Bene, quando mi è stata fatta questa diagnosi per la prima volta mi sentivo proprio come un ragazzino che gridava “voglio la mia mamma!” Seriamente, quella è la prima cosa che mi è venuta in mente. Ma lei era (già) morta da molto tempo, quindi non avevo nessuno che mi aspettava “a casa”, nessun grembo in cui rifugiarmi, in cui crogiolarmi. Il mio partner era già morto ed il resto della mia famiglia mi aveva emarginato quando aveva scoperto che ero gay. La mia famiglia non sa che ho l’AIDS, e non gli darò il piacere di scoprirlo, in modo da potermi dire che è la punizione di Dio. I miei amici mi capiscono, ma non sono molto preparati al pensiero della mia morte – e non lo sono nemmeno io! Non sono ancora pronto – Non sono sicuro se lo sarò mai.
Ogni volta che inizio a pensarci, mi spavento di più e ho davvero bisogno di trovare un posto sicuro dove prendere fiato, e allontanare l’AIDS per un po’. Vado a rilassarmi nella casetta di un amico, ma solo per poco tempo. Così quando mi sono trovato in questo motel per una conferenza, ed ho visto questa culla nella stanza, subito mi è venuto in mente che sono stato così piccolo da stare dentro ad una culla. Così, non appena l’ho vista, ho subito deciso che era il momento di entrarci dentro. Non ci ho pensato molto – Ci sono entrato e basta.  E sai cosa? Mi sono sentito così sicuro lì dentro…
Così il giorno dopo ho chiesto al mio amico di venire  in camera con la sua macchina fotografica e l’ho fatto di nuovo, in modo da potermi ricordare che c’era una volta questo posto in cui ero felice e non avevo preoccupazioni, quando la mia vita era pulita e pura e non avevo nessun idea di cosa fosse la morte. Ogni tanto tiro fuori questa fotografia e mi viene in mente cosa significa non avere alcuna paura e questo mi fa sentire davvero meglio per un po’…

4- L’album di famiglia ed altre raccolte foto-biografiche:

Gli album fotografici e le altre raccolte simili di fotografie di “storia familiare” sono naturalmente solo una sintesi dei tre tipi precedenti di fotografia individuale: le foto fatte dalle persone, quelle fatte alle persone, e gli autoritratti (che sono naturalmente una combinazione delle prime due). Ma queste fotografie, quando sono messe in una sequenza ordinata che forma nel complesso una “foto più grande” come un album, hanno come una seconda vita. E l’effetto che hanno tutte insieme come sistema narrativo ha un raggio d’azione di gran lunga maggiore di quello di qualsiasi tipo di fotografia  singola, che nessuna delle altre quattro tecniche di fototerapia ha considerato.
Per questo motivo, nella fototerapia, è necessario  lavorare in modo del tutto particolare con le foto familiari, pur restando la possibilità di lavorare con i singoli “tipi” di fotografie seguendo le altre quattro tecniche.
Gli album ricordano quei momenti speciali, quei luoghi, quelle persone (e quegli animali!) che hanno avuto particolare importanza nella vita della famiglia (o anche nella vita della persona che ha creato l’album a modo suo). Le pagine dell’album mostrano non solo gli individui da soli, ma anche come sono inseriti all’interno di contesti più ampi e di sistemi familiari, quindi mostrando anche chi sono nel complesso, (dentro quella relazione familiare) anche se presi individualmente. In diverse modalità, l’album di famiglia è la loro casa (metaforica) ed anche la base su cui si fonda la loro identità.
Nella loro realizzazione gli album di solito mostrano le famiglie nei momenti migliori, dando così l’idea che “le cose sono sempre così” (sebbene i veri rapporti di famiglia siano raramente così ideali). Da un punto di vista narrativo-costruttivista, ogni storia è frutto di una sequenza di frasi in cui conta la scelta delle parole e l’ordine in cui si mettono in fila (dal momento che ogni parola trae significato da quella precedente ed è legata a quella successiva). Se nella frase sopra sostituiamo “le parole” con  “le fotografie”, si può facilmente vedere come un album di famiglia non è così tanto un documento familiare storico oggettivo, ma piuttosto una costruzione personale frutto delle scelte di chi fa l’album per raccontare in modo particolare la storia di quella famiglia. Per questo motivo un membro diverso della famiglia racconterebbe una storia del tutto diversa, ma utilizzando sempre le stesse fotografie.  Quindi, anche se un album familiare non è così oggettivo come una “registrazione vera” dell’identità collettiva di una famiglia, la storia che viene costruita all’interno delle sue pagine sarà sempre frutto delle scelte di qualcuno.
Visto che la versione generalizzata, idealizzata, della storia familiare presentata nell’album di famiglia è raramente uguale a quella del paziente, può essere molto utile chiedere ai pazienti di tornare indietro e di ricostruire l’album a modo loro e di “ricordare” le parti dell’album dal loropunto di vista. Questo può fornire nuove idee riguardo il punto di vista del paziente (spesso diverso) sui rapporti familiari. Aiutare le persone a vedere se stessi dentro i propri contesti storico-personali spesso aiuta a capire meglio i sentimenti e le situazioni attuali (e forse a riconoscere da dove vengono alcune delle loro aspettative e dei loro giudizi).
Gli album possono somigliarsi o presentare degli schemi tematici ripetitivi. Contengono anche persone “dimenticate”, segreti, miti, “armadi”, aneddoti drammatici, insieme a qualche bugia – e quindi ciò che è stato omesso (o taciuto) nelle loro pagine  talvolta è terapeuticamente più significativo di ciò che effettivamente ci appare. I terapeuti ad orientamento sistemico-familiare troveranno che gli album familiari sono una fonte particolarmente ricca di informazioni sulle dinamiche interne, come questioni di fusione/differenziazione, schemi di triangolazione, aspettative di genere/ruolo, “questioni non risolte” e “copioni” familiari, e molte altre cristallizzazioni tangibili nella comunicazione emotiva della famiglia.
Gli album sono  la prova dell’esistenza stessa delle persone; vivono facilmente più a lungo di chi vi è fotografato e mostrano il mondo vissuto in quel periodo e quanto sia importante la vita. In questo modo, l’utilizzo di tali fotografie per aiutare il processo di ripasso, di rivisitazione della vita e di reminiscenza, può aiutare le persone a rimettere a fuoco la loro prospettiva, orientandole verso il futuro, verso il naturale scorrere della vita. Essi permettono alle persone di rivedere le loro esperienze ed i loro successi, i loro contatti e le loro relazioni con gli altri, e di trovare il significato e lo scopo della loro vita.

Esempio:

Una giovane donna, Elaine, mi portò questa fotografia dal suo album di famiglia personale (fig 5 ) in risposta alla mia richiesta, “che lei mi raccontasse la sua infanzia tramite le fotografie”.

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Figura 5 ©2004, copyright Padre de Elaine / Judy Weiser

Lei spiegò,
“Questa foto in particolare ha molto significato per me, per molte ragioni. Mi piace il senso di vicinanza, la posizione fisica di tutte e tre le femmine (io all’età di 5 anni, mia sorella di 8 e mia madre). La fotografia è stata scattata un anno prima che i miei genitori si separassero, ed è l’unico documento che ho di una “vera” uscita di famiglia. Vedo anche molto affetto negli occhi di mia madre per il fotografo (mio padre), cosa che ho  visto raramente in altre fotografie. Noi tre (o piuttosto noi 4) sembriamo essere una famiglia molto unita (questa è una visione piuttosto falsa, ma che tuttora mi piace perché ideale).
Abbiamo esplorato quest’immagine parlando di ogni persona, dell’ambientazione, dei sentimenti e dei ricordi che richiamava alla mente. Mentre io facevo attenzione a questi aspetti “maggiori”, non ho notato effettivamente i dettagli più piccoli come una scarpa o una zolla d’erba. D’improvviso Elaine si è fermata ad osservare rabbiosamente le pagine piegate di un giornale (su di un sasso all’estrema sinistra dell’immagine).

La mia visione rosea di questa scena è cambiata proprio ora che mi sono resa conto del giornale che è lì, accanto a mia madre, sui sassi. E più che comincio a pensare al significato simbolico di quel giornale, più mi infastidisce davvero – mia madre può non essere stata davvero “lì” con noi in quella gita come io avevo percepito inizialmente; di solito lei preferiva leggere piuttosto che passare il tempo con noi. Tutto ciò parla del mio desiderio di una madre che mettesse il suo essere genitore davanti alla sua vita intellettuale, cosa che mia madre non faceva. Parla anche del mio desiderio (inespresso) di una madre che davvero amasse mio padre. Ho scaricato la mia rabbia sul giornale per aver distrutto la mia percezione di quella situazione come una uscita familiare felice ed intima.

Quando le ho chiesto cosa sarebbe successo se il giornale offensivo non fosse stato lì, e fosse stato in qualche modo tagliato dalla fotografia, lei rispose ”non sarebbe giusto eliminarlo in quanto rappresenta una visione vera della situazione”. Tuttavia qualche mese dopo, quando Elaine stava facendo un collage delle vecchie fotografie per  un regalo di compleanno di sua madre, pensò per un po’ di tempo se dovesse o no togliere quel giornale, cosa che alla fine ha fatto, “in parte per il poco spazio nel collage, ma soprattutto perché ho deciso di onorare la mia visione, realistica o no che fosse”.

5-  “Foto-Proiettivi”:

In modo molto simile al vedere il mondo attraverso le lenti da sole, i cui effetti sono così familiari che non si notano più (fino a quando non vengono tolte), le persone vedono il mondo intorno a sé attraverso simili “lenti” inconsce che automaticamente filtrano tutto ciò che incontrano, incluso leproprie percezioni, i pensieri ed i sentimenti- Anche mentre restano totalmente inconsapevoli di tali cose. Allo stesso modo, guardare qualsiasi immagine fotografica produce delle percezioni, delle reazioni emozionali che sono proiettate dalla mappa interiore propria di quella persona, la mappa della realtà, che determina la spiegazione che essi si danno di ciò che vedono. Quindi, la “verità” di una fotografia risiede non solo al suo interno, ma piuttosto esiste nell’interfaccia astratta meno tangibile tra la foto e chi la osserva, il “luogo” dove ciascuna persona forma le proprie ed uniche reazioni  a ciò che vede. Questo processo soggiace a tutte le interazioni tra le persone e le fotografie (o le macchine fotografiche), e aiuta a capire le modalità e le motivazioni secondo cui si percepisce il significato di una qualsiasi foto.
Dal momento che per qualsiasi immagine non è possibile trovare una verità oggettiva, non ci saranno mai due osservatori che otterranno un significato identico a partire dalla stessa fotografia. Questa tecnica è stata chiamata “Foto-Proiettivi”, perché le persone proiettano sempre un significato su una fotografia- Semplicemente, un modo del tutto originale in cui vedere una fotografia. Per questo le reazioni dei pazienti alle fotografie sono molto utili, perché aiutano i terapeuti a spiegare ai pazienti come si costruiscono la mappa della realtà.  Questo è vero, non solo per quanto riguarda le proprie fotografie, quelle che hanno scattato o quelle degli album familiari, ma anche per quanto riguarda fotografie diverse che il terapeuta ha scelto per ragioni particolari o per obiettivi terapeutici, come foto di giornale, cartoline, pubblicità sulle riviste, copertine di libro e così via. Per questo la tecnica delle “foto proiettive” è più parte delle altre tecniche che una tecnica a sé, tuttavia deve essere discussa in modo separato (e preferibilmente deve essere insegnata per prima ai terapeuti in formazione).
Nel processo di fototerapia Foto-Proiettiva, non ci può essere un modo sbagliato di guardare una fotografia o una risposta sbagliata ad essa; quindi, non ci possono essere risposte sbagliate (proprie o di altri). Il giusto e lo sbagliato diventano termini puramente relativi, perché le risposte alle fotografie sono accettate  per il loro contenuto piuttosto che per la loro correttezza. Dal momento che ogni interpretazione è corretta dal punto di vista di chi la dà, questa tecnica può essere uno strumento efficace per aiutare l’autoconsapevolezza ed il rinforzo del sé, specialmente con pazienti che sono abituati da molto tempo a sentire le proprie percezioni svalutate o messe in discussione. Visto che si attribuisce un significato ad una fotografia più emozionalmente che visivamente, non dovrebbe sorprendere che le fotografie spesso scatenano ricordi profondi, sentimenti forti e contenuti presenti a livello inconscio. Sebbene le persone raramente si fermano a pensare perché e come questo accade, questo è l’obiettivo principale e lo scopo del lavoro fotoproiettivo.
Le tecniche di fototerapia proiettiva sono un modo ideale perchè i pazienti prendano contatto con sicurezza con i propri “filtri” personali, sociali, familiari, di classe, culturali, senza essere di conseguenza svalutati, sminuiti, indeboliti o giudicati da altri che non li capiscono perché hanno dei  “filtri” diversi. Nelle sessioni terapeutiche, dove una comunicazione chiara è particolarmente importante, può essere utile aiutare i pazienti a rendersi conto che il loro personale modo di interpretare il mondo o le azioni degli altri, non è l’unico modo possibile. Se si accetta che molte persone possono vedere una fotografia in modi molto diversi (ognuno dal proprio punto di vista), allora si può pensare di capire che questa diversità di percezione si può verificare in tutte le interazioni quotidiane, quando si fanno le cose in modo diverso dagli altri (ognuno osservando gli altri).
Un cambiamento può iniziare solo dall’interno; solo dal rendersi conto che c’è più di un modo per vedere la propria situazione, solo così i pazienti troveranno ciò che  potrebbe aiutarli a considerare le cose da un’altra prospettiva. Per aiutare i pazienti a fare i cambiamenti che vogliono  (in particolare i pazienti di una minoranza, di una classe o razza privata di diritti, o di altre realtà diverse), i terapeuti devono innanzitutto riuscire a vedere il mondo attraverso i loro occhi (e scoprire i filtri della realtà unici che determinano in modo selettivo i loro significati speciali, anche se questi possono non sempre essere evidenti al terapeuta).

Esempio A (usare fotografie in modo proiettivo nella riflessione passiva):

Nel guardare un tavolo su cui erano stese diverse fotografie, una donna scelse la fotografia di una persona che guardava fuori dal finestrino di un treno, perchè era quella che più attirava la sua attenzione da un punto di vista emotivo (fig. 6).

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Figura 6 ©2004, copyright Judy Weiser

Questa fotografia particolare mi chiamava e quindi l’ho raccolta dal tavolo per guardarla più da vicino. E’ la fotografia di qualcuno che guarda fuori da un finestrino rotto. Nel riflesso della finestra ci sono degli alberi. I muri intorno alla finestra sono di acciaio, con delle righe. Le mie riflessioni: E’ un treno? Un edificio? Una prigione? In alcuni modi mi faceva pensare agli uomini con cui lavoravo nell’ambiente carcerario. Erano lontani da casa ed anche se c’erano degli alberi intorno a loro (era un sistema di giustizia Nativo, che utilizzava ambienti e metodi di recupero tradizionali), erano comunque in prigione.
Questi sono pensieri a parte. Io sapevo che avevo scelto la fotografia perché parlava un po’ di me e non di qualcun altro. Solo che non ero sicura di cosa dicesse. Dovevo sedermi con lei per un po’ di tempo per capire cosa significava. Il viso nella finestra sembrava stanco ed era come io mi sentivo. Sono stata a scuola per dieci anni, e sono semplicemente stanca. Stanca di lottare ogni giorno per i soldi, il tempo, la salute. Stanca di dover costantemente lottare per ciò in cui credo. E…beh…semplicemente stanca. Non faccio una vacanza da sette anni.
“Perché il finestrino rotto? E dov’è la persona?” Io sentivo che la persona era su un treno che era come una prigione. Stanno andando da qualche parte ma non possono scendere dal treno fino a che non si ferma ( proprio come la mia esperienza scolastica). L’unico collegamento con il mondo esterno è dato dal finestrino rotto (come i miei occhiolini alla vita…camminare nel parco, un caffè con gli amici, andare a trovare le persone).
Le persone non sono miserabili. Sono solo stanche. Sanno che devono restare sul treno e che non scenderanno fino alla fine del viaggio, che può durare anni e anni. Ecco come mi sento. Non avevo programmato di restare a scuola per così tanto tempo. Nel mio cuore, non sono una universitaria. Volevo ottenere un diploma artistico, acquisire altre conoscenze e forse scrivere libri per bambini. Ed eccomi dieci anni dopo, seduta sullo stesso treno.
Mi sono quasi dimenticata di come si vive in un mondo che non è così pieno di tante sensazioni che ti isolano e di compiti come scrivere (in modo accademico, non in modo creativo), di voti (i giudizi mi lasciano totalmente perplessa e mi raggelano), della freddezza di certi professori (se le persone ti tengono ad una certa distanza possono mantenere la gerarchia), e della mancanza di lunghi periodi da passare in un posto rilassante e naturale solo per lasciare andare i miei pensieri.
Come riguardo l’immagine, potrei dire che mi sento in qualche modo soffocata e costretta. Posso vedere gli alberi, ma non posso toccarli. Posso vedere l’esterno di questo treno-prigione, ma non posso scendere finché non è finito il viaggio. Potevo scendere quando volevo, ma poi non mi sarei trovata dove avrei avuto bisogno di essere. Ho bisogno di scendere nel posto giusto, e così devo soffrire per questo viaggio alienante. Ho trovato tutto ciò piuttosto illuminante e triste allo stesso tempo. Perché dopo tutto, il treno va ancora avanti nel suo viaggio.

 Quattro anni dopo aver scritto quanto sopra, lei rilesse le sue parole e dopo aver guardato di nuovo la stessa fotografia aggiunse, ”Adesso, nel rileggere i miei pensieri sulla foto che io vedevo come un viaggio in treno, mi rendo conto di quanto fossi infelice come laureata in quel periodo particolare ed in quell’istituto particolare. Tuttavia in qualche modo c’era qualcosa che mi faceva sentire che io “dovevo” restare. Era un  “dovrei” e non un “voglio”, che mi fece sembrare l’esperienza come una condanna carceraria.

Un po’ di tempo dopo la (originale) realizzazione foto-terapeutica, ci volle molto coraggio, ma mi ritirai dal programma in cui ero e continuai a fare il mio lavoro clinico. Immediatamente sentii sollevarsi un fardello e sentii che ero nuovamente fuori in mezzo agli alberi. Adesso sono in un programma di specializzazione ma è un “voglio” e non un “dovrei” ed io non mi sento più come se fossi sul treno. Adesso mi sento come se periodicamente viaggiassi sul treno, ma ora mi godo il paesaggio e so che posso scendere e dare un’occhiata quando ne sento la necessità.

Esempio B (usare le fotografie proiettivamente in interazione attiva).

Un giorno ho fotografato la scena che si vede sotto (fig. 7) allo zoo della mia città, perché mi simboleggiava l’immaginazione giocosa e la finzione dell’infanzia che io in quanto adulto non riesco a vedere più molto spesso (fig.7).

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Figura 7 ©2004, copyright Judy Weiser

Quando per la prima volta l’ho aggiunta al mio muro di fotografie da guardare nella sala di attesa del mio studio, mi aspettavo reazioni che riflettessero questo stato d’animo gioioso (e in verità sentivo diversi commenti al riguardo, come:” Oh, l’innocenza del divertimento infantile”; “Sono nella terra di nessuno, sull’isola che non c’è, con Peter Pan, o con qualche nave pirata che esplora qualche isola deserta da qualche parte”; e  “Sono in qualche avventura ad un milione di miglia di distanza; il tempo è fermo, e non hanno assolutamente nessuna consapevolezza che ci sia qualcun altro intorno!”).
Una volta un ragazzo quasi adolescente si fermò a guardare questa immagine ed io gli chiesi quale fosse la sua reazione. “E’ come se avessero adottato quell’elfo nella propria famiglia, proprio come un fratello,” sorrise. Allora io gli chiesi in modo del tutto innocente,  “Che cosa faresti se quell’elfo esistesse davvero?”. “Beh, lo porterei via di lì e gli offrirei un pranzo al McDonald’s. Gli darei da mangiare della verdura e gli chiederei se conosce E.T., quel tipo dei film, e lo porterei a casa per mostrarlo alla mia mamma.”  Pensai che fino a quel momento aveva dato risposte semplici e così continuai, “Che cosa penserebbe la tua mamma di tutto ciò? Che cosa si direbbero lei e l’elfo? Che cosa succederebbe poi?”.
Le sue risposte, anche se date come ovvietà, ben presto catturarono sempre più la mia attenzione. Come se fosse ovvio, continuò, “Mamma penserebbe che è grandioso, ma poi lei ed io dovremmo trovare un nascondiglio abbastanza grande per lui prima che il babbo torni a casa, perché ci potrebbero essere dei guai.” “Perché?” chiesi in modo gentile. “Perché se papà fosse ubriaco come è di solito e si trovasse questo elfo davanti, gli darebbe dei calci e lo picchierebbe. Sarebbe meglio se lo nascondessi sotto il letto con me ed il mio fratellino finché non posso dirgli con sicurezza se ci picchierà o no.”
Inutile dire che con questa famiglia seguì una lunga seduta di counseling. Prima di tutto, per prendere coscienza dell’esistenza di problemi precedentemente negati e di situazioni di abuso non discusse nelle sedute precedenti, ed in secondo luogo, per iniziare a fare qualcosa al riguardo.
Le situazioni dolorose e di abuso che si verificano all’interno delle mura domestiche sono spesso ben difese dal sistema familiare. Ai bambini viene spesso intimato di non raccontare a nessuno ciò che succede in casa, ma i ricordi di tale realtà patologica (ed i sentimenti di confusione associati), se non trattati in modo terapeutico, possono restare in profondità in modo inaccessibile per lungo tempo, venendo in superficie solo quando  si raggiunge la parte inconscia, oltrepassando le difese usuali.
Questi ricordi e questi sentimenti, situati nel profondo, possono venire fuori solo quando uno stimolo sensoriale, come un odore o uno stimolo visivo, li fa emergere in modo spontaneo ed intuitivo, superando le difese e le razionalizzazioni verbali usuali. Per liberare questo materiale e lavorarci, è necessario oltrepassare i canali verbali usuali ed “entrare dentro di nascosto”, passando “da una parte”, per arrivare ai sentimenti prima che la mente conscia possa stabilire le difese a livello verbale. Per esempio, spesso è molto più sicuro parlare delle persone che sono nelle fotografie, (anche se si tratta del paziente stesso) che parlare di sé  direttamente, perché parlare di sé direttamente può essere più difficile da gestire. Come illustrato bene negli esempi precedenti, usare le fotografie come catalizzatori proiettivi può essere un ponte di collegamento utile: Prendere contatto con i contenuti più profondi dell’inconscio, grazie all’utilizzo delle fotografie, che rendono questo procedimento gestibile, assicurando un distanziamento sicuro e lavorando metaforicamente attraverso i simboli visivi.

La fotografia piu’ grande

Dal momento che tutte le cinque tecniche sono state esaminate insieme come un unico sistema correlato, è difficile definirle come cinque parti distinte, dal momento che ogni tecnica in effetti è in parte “formata da” e in parte si “giustappone a”, tutte le altre. Quindi, per applicare nel modo più efficace queste tecniche, sarà opportuno combinarle in modo creativo.

Per maggiori informazioni riguardo a queste tecniche consultare il sito:  www.phototherapy-centre.com

Conclusioni

La fototerapia aiuta il terapeuta a vedere con occhi nuovi le cose che i pazienti hanno sempre visto, ma vedendole in modo differente. Permette la percezione dei sentimenti ed il loro ri-collegamento, permette di essere viscerali e cognitivi e permette al passato di diventare presente. Permette alle persone di usare le fotografie come stimoli per sollecitare risposte sia a ciò che è chiaro che all’informazione implicita nell’immagine fotografica, e di precipitare il dialogo che non emergerebbe in tale qualità e profondità se fossero usate solo le parole per esplorare il soggetto.
I buoni terapeuti non dicono ai loro pazienti cosa fare (o come vedere). Piuttosto, essi sostengono i loro pazienti nella ricerca dei propri percorsi o nella realizzazione dei cambiamenti che vogliono, con i propri tempi. In tutto questo, i pazienti sono accompagnati dalle proprie capacità introspettive, potenziate dalla maggiore consapevolezza dei propri contenuti più profondi e di come tali contenuti sono collegati ai loro sentimenti e credenze più intimi. I terapeuti possono solo aiutare le persone a riscoprire ed esplorare ciò che inconsciamente già sanno, e a notare come le loro comunicazioni visive possono rivelare dettagli o schemi pre-esistenti della loro vita che già esistevano, ma di cui in precedenza non erano consapevoli.  Aiutare i pazienti a raggiungere quella consapevolezza è l’obiettivo primario della terapia, in modo tale che i pazienti non avranno più bisogno di rivolgersi ad un terapeuta in caso di successiva insorgenza del problema.

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http://www.phototherapy-centre.com/articles/2006_INformazione_breve.pdf
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http://www.phototherapy-centre.com/articles/2004(a)_CATA_Jnl.pdf

NOTE FINALI

  • Questa frase è attribuita a Oliver Wendell Holmes; citazione esatta riferimento sconosciuto.
  • Io pensavo di avere inventato questo campo, io stesso, poiché il mio primo articolo sul soggetto è apparso nel 1975 (Weiser, 1975) quando io sapevo di nessun altro che faceva questo lavoro, ma in seguito ho incontrato diverse altre persone che anche loro pensavano di averlo inventato, attorno allo stesso periodo- sebbene le loro effettive pubblicazioni non sono apparse fino ad una data effettiva (per esempio Krauss, 1979, 1980, 1981; Stewart, 1979; Wolf, 1976, 1978; Zakem, 1977). Questa sincronicità di “un’idea il cui momento era arrivato” ha portato a così tante conferenze di fototerapia internazionali, un giornale professionale che è durato più di un decennio, alcuni libri, e numerose altre pubblicazioni (che si possono trovare a
    www.phototherapy-centre.com/recommended_readings.htm). Per ulteriori informazioni sulla storia del campo della fototerapia, vogliate vedere il sito:
    www.phototherapy-centre.com/history.htm
  • Terapeuti addestrati sia in fototerapia che in arteterapia troveranno benefici eccitanti nel combinare i due procedimenti insieme; le prime poche illustrazioni fotografiche che accompagnano questo articolo mostrano proprio questo tipo di fusione. C’è grande potenziale nell’avvicinarsi a questi tipi di artefatti da entrambe le prospettive.
  • Tutte queste fonti possono trovarsi in varie pagine del sito delle “tecniche fototerapeutiche” www.phototherapy-centre.com (per esempio, “Link correlati”, “chi sta facendo cosa, dove”, etc.) come pure l’interattivo “Gruppo di Discussione Fototerapia” dove ci si può mettere in rete con molti altri da tutto il mondo.
  • E le applicazioni aggiuntive conterranno molto certamente appariranno una volta che i terapeuti si sentono più a loro agio nell’usare le varie tecnologie digitali (e forse persino trovarsi a fare cyber terapia fondata sull’arte interattiva con i propri pazienti)!
  • Più di 200 libri, articoli e capitoli di libro si possono trovare elencati sulla pagina delle “Letture Raccomandate” del sito www.phototherapy-centre.com/recommended_readings.htm dove ci sono quattro diverse categorie di elenchi: “Fototerapia”, “Fotografia terapeutica”, “VideoTerapia” (video in terapia e video come terapia), e “Relativi” (studi culturali fotografici e/o antropologia visiva e/o sociologia e applicazioni di ricerca) – mentre una lista ancora più lunga si può scaricare che contiene molte più pubblicazioni di fototerapia.
  • Per esempio nella terapia con famiglie (Berman, 1993; Entin, 1981; Kaslow & Friedman, 1977), con la gioventù (Fryrear, 1982, 1983; Weiser, 1983, 1988b, 2002; Wolf, 1982, 1983), con le donne (DeMarre, 2001; Weiser, 1990), con i pazienti mentali (Comfort, 1985; Phillips, 1986; Walker, 1982, 1983, 1986), con argomenti di dolore e perdita e lutto (Gough, 1999, 2003; Wikler, 1977), con il diventare anziani o l’alzheimer (Sandoz, 1996; Weiner & Abramowitz, 1997; Zwick, 1978), con i disturbi del comportamento alimentare (Wessels, 1985), con il lavoro interculturale sulla diversità e molti altri (Hogan, 1981; Weiser, 1975; Weiser, 1983, 1988a), e molti altri  — incluso nella “combinazione incrociata” con l’arteterapia (Comfort, 1985; Fryrear & Corbit, 1992; Landgarten, 1993; Weiser, 2000; Wolf, 1978). Anche molte Tesi e dissertazioni di studenti non pubblicate aggiungono molto a questo corpo di letteratura importante; per una lista di circa un centinaio di questi vedere il sito: www.phototherapy-centre.com/student_proj.htm
  • Informazioni su addestramento, consulenza o seminari che riguardano la fototerapia si possono trovare sulla pagina “addestramento e istruzione” al sito:
    www.phototherapy-centre.com/training.htm — così come in Weiser (1985, 1986, 1999).…
  • Per discussioni più lunghe su tutte le tecniche di fototerapia specifiche, incluse molte illustrazioni di casi, una bibliografia lunga e in modo più importante, esercizi numerosi con cui i terapeuti possono inizialmente praticare su se stessi prima di iniziare con i pazienti, vedere il libro: Tecniche di fototerapia: Esplorando i segreti  delle fotografie personali e degli album di famiglia (Weiser, 1993/1999). Una copia scaricabile gratuitamente del primo capitolo di questo libro si può trovare sul sito:
    www.phototherapy-centre.com/bookvid.htm
  • Alcuni degli esempi di questo articolo provengono dalle sedute con i pazienti, mentre altri vengono dal role playing di partecipanti ai workshop come pure di pazienti durante gli esercizi di addestramento. Poiché l’illustrazione della tecnica è la stessa ad entrambi i livelli, questi non saranno ulteriormente differenziati negli esempi che seguono.
  • Photograph copyright ©1993, “A.R.”
  • Ruth è uno pseudonimo, come lo sono tutti i nomi usati in questi esempi.
  • Photograph copyright ©1993, “Elaine’s Dad”

Riferimenti.
PhotoTherapy References

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“©2006, Judy Weiser; traduzione parziale dall’ originale completo inglese, autorizzata dall’ autrice, pubblicato nel 2004 nel “Canadian Art Therapy Association  Journal” (Autumn, 17:2, pages 23-53), con il titolo: “PhotoTherapy  techniques in counseling and therapy: Using ordinary snapshots and  photo-interactions to help clients heal their lives”.Questa versione “breve” dell’ articolo in italiano è scaricabile dalla pagina:
http://www.phototherapy-centre.com/articles/2006_INformazione_breve.pdf
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Nota:  Tutte le fotografie in questo articolo sono protette da copyright “©2004, copyright Judy Weiser”, salvo dove diversamente  indicato.

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