Published On: 24 Aprile 2014Categories: La Rivista

di Sergio Mazzei

Pubblicato sul Numero 11 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

E’ noto che la psicoterapia della Gestalt è stata introdotta negli anni ’50 principalmente da Frederick (Fritz) Perls, una figura molto carismatica  all’interno del movimento della psicologia umanistica.

La psicologia umanistica è stata fondata da Abraham Maslow ed è chiamata anche psicologia della “terza forza” in contrapposizione con le altre due correnti della psicologia che sono quella più tradizionale della psicoanalisi che nasce con Freud e quella comportamentista che ha origine dallo psicofisiologo russo Pavlov. Ponendosi aldilà dell’orientamento distaccato e non coinvolto che si trova per esempio nell’approccio medico (una sorta di “essere intorno” e chiamato “aboutism” da Perls), o dell’orientamento rigidamente doveristico (il fai ciò che “devi” e chiamato “shouldism” da Perls) che troviamo in modo particolare nell’approccio moralistico religioso o di un certo tipo di pedagogia e che in qualche modo rappresentavano gli approcci delle prime due “forze”, la psicologia umanistica ha sottolineato piuttosto la necessità di integrare nella sfera della personalità umana quegli atteggiamenti, emozioni e modi di essere non proprio orientati al perfezionismo e/o a modelli stereotipati di comportamento e si trova in linea con la visione dell’Esistenzialismo ove viene enfatizzato il ritorno alla condizione dell’individuo così com’è, ovvero all’accettazione dei suoi limiti e della sua cosiddetta imperfezione ed il diritto di avere le proprie difficoltà, come gli stati d’animo dell’ansia, dell’angoscia, della tristezza, del dubbio, della confusione, della paura, eccetera. Ecco come Maslow definiva le personalità sane: “Non trascurano l’ignoto, né lo negano, né lo fuggono, né cercano di dare ad intendere che in realtà sia noto, né lo organizzano, né lo dicotomizzano, né lo catalogano prematuramente. Non si attaccano alle cose familiari, e la loro esigenza di verità non è un bisogno catastrofico di sicurezza, di certezza, di definizione e di ordine … possono essere, quando la situazione oggettiva lo esige, confortevolmente disordinati, trascurati, anarchici, caotici, vaghi, dubbiosi, incerti, indefiniti, approssimati, inesatti o imprecisi.”

 

Perls e i suoi collaboratori sono stati variamente influenzati nella formulazione della teoria della psicoterapia della Gestalt da una molteplicità di approcci e modelli psicologici e tradizionali.

Storicamente la psicoterapia della Gestalt ha il suo battesimo a New York nel 1951 da un gruppo di sei individui particolarmente devianti rispetto la norma del tempo e cioè Hefferline, teorico della filosofia anarchica, Goodman e Laura Perls studiosi della psicologia della Gestalt, Shapiro, Weiss e lo stesso Perls a cui successivamente si unì Isadore Fromm ed altri.

Le influenze della psicologia della Gestalt provengono attraverso principalmente le esperienze e le considerazioni di Laura Perls e Goodman. Essi integrarono nell’approccio le scoperte degli studiosi tedeschi della psicologia della forma, detta anche della Gestalt, come Max Wertheimer, Wolfgang Köhler e Kurt Koffka che presero distanza dalla precedente tendenza associazionista che considerava la percezione come una somma di elementi ed attività distinte e separate. Questi autori studiavano la percezione nell’ottica fenomenologica e dalle loro ricerche ne derivava che una realtà certa delle cose non c’è, ma che esiste piuttosto un modo di strutturarla sulla base dei propri bisogni, poiché gli uomini non vedono le cose per come sono ma in base al bisogno interno e certamente all’abitudine a vederle in un certo modo.

Degli psicologi della Gestalt sono note le “figure ambigue”:

 

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vaso di Rubin donna ambigua di Leavitt contorni virtuali di Kanitza

 

 

ed altre ancora .Vi è da  dire che nelle figure di sopra in realtà non c’è alcun vaso, nessuna vecchia o giovane donna, nessun doppio triangolo con dei cerchi, ma da esse si può evincere piuttosto una caratteristica psicologica dell’individuo a “chiudere la forma”, ovvero denota la sua incapacità di stare nella condizione di apertura alla percezione in quanto sempre sorge la necessità  di dare immediatamente una “chiusura” al proprio percepito con qualcosa di familiare in modo da poter placare la propria ansietà per le “gestalt aperte”.

Possiamo riscontrare in queste considerazioni sulla psicologia della Gestalt l’influenza dellaFenomenologia che ha appunto sottolineato la soggettività della percezione.  Peraltro anche nella visione epistemologica contemporanea si è abbandonata la posizione di “assolutismo” e viene invece sottolineata la relatività della percezione. Lo stesso Einstein sosteneva che “è la teoria che decide ciò che noi percepiamo”. Anche gli studi di Bluma Zeigarnick hanno evidenziato la costituzionale incapacità dell’individuo a stare con le “gestalt aperte” a causa della sua tendenza a chiuderle come accade per esempio nei racconti che si interrompono all’improvviso come nelle storie televisive o dei romanzi a puntate e che creano nell’individuo uno stato di tensione tale, il cosiddetto “effetto Zeigarnick” che produce una “gestalt aperta” che imperiosamente spinge alla sua chiusura, in altre parole nell’individuo rimane l’attesa di sapere come andrà a finire la storia interrotta e magari sarà presente alla puntata televisiva successiva o acquisterà il numero seguente del racconto.

Gestalt” è una parola tedesca che significa “totalità”, “struttura”, “configurazione”, “insieme”. Noi siamo una “gestalt” nel senso che siamo una configurazione costituita di tante parti. Siamo fatti di pensieri, di emozioni, di sensazioni fisiche e tutti insieme i nostri aspetti formano una particolare gestalt. All’interno della nostra forma, della nostra gestalt globale vi sono innumerevoli configurazioni e sottoaspetti della nostra personalità che ancora richiedono una “chiusura”. Molte di queste cosiddette “gestalt aperte” nella psicoterapia  sono rappresentate dai sintomi che si manifestano per esempio attraverso il comportamento o attraverso i sogni tutte le volte che vengono dei pensieri fissi o ripetitivi che chiedono un’attenzione particolare. Sono appunto queste esperienze che hanno bisogno di essere chiuse e quindi l’effetto Zeigarnick ci riguarda tutti quanti. Nella misura in cui non abbiamo chiuso le nostre gestalt aperte sperimentiamo la spinta a chiuderle e questo lo vediamo nel mondo della psicoterapia dove sostanzialmente i pazienti portano prevalentemente le proprie gestalt aperte per essere aiutati a chiuderle.

Come ho prima accennato anche l’influenza dell’Esistenzialismo è notevole. Oltre che del “diritto alla soggettività”, l’esistenzialismo parla della “respons-abilità” di se stesso e della propria vita, della soddisfazione dei propri bisogni e quindi del fatto che l’individuo può scegliere da che parte andare e che farsene della propria vita. L’individuo può scegliere se seguire i suggerimenti della propria famiglia , clan o cultura di appartenenza o se scegliere di abbandonare tutto e seguire per esempio gli insegnamenti di un maestro indiano o degli aborigeni australiani  o di andarsene in un’ isola solitaria e vivere con gli oranghi e così via; quindi l’esistenzialismo sottolinea proprio la nostra responsabilità davanti alla nostra vita e alle nostre scelte.

Altra influenza importante proviene dall’ esistenzialista  ebreo chassidico Martin Buber che ha sottolineato in modo particolare l’importanza della relazione “io- tu”. Relazione per Buber significa reciprocità. “Il mio tu opera su di me, come io opero su di lui…”. L’uomo diventa un ioquando è a contatto con il tu.

Non dimentichiamo inoltre che Perls era uno psicoanalista per cui il suo modello è stato evidentemente molto influenzato dalla metapsicologia freudiana alla quale si era riferito nella sua attività clinica quando esercitava in Germania .

Evento molto importante fu l’incontro di Perls con Friedlander a Berlino. Questi lo introdusse alla nozione di “indifferenza creativa”. Il concetto di indifferenza creativa la ritroviamo nella psicologia buddhista che enfatizza la posizione contemplativa che poi ritroviamo applicata in molte pratiche meditative e prima tra tutte in quella della “Vipassana” che peraltro significa proprio “vedere le cose per quelle che sono”, senza appunto cercare a tutti i costi di “chiudere le forme” come riferito sopra essere la tendenza generale umana.

Tale posizione contemplativa è, di fatto, anche la caratteristica principale dell’atteggiamento fenomenologico sostenuto da Edmund Husserl. Ricordo come in tale metodo di pensiero si sostiene che non è tanto importante l’analisi dei contenuti della nostra mente quanto piuttosto l’osservazione del suo processo a differenza della posizione analitica che, per esempio, tende ad usare in senso metaforico il “microscopio” ed a osservare con precisione tutto ciò che è oggetto della percezione mentre invece nella posizione fenomenologica si tende maggiormente a prestare attenzione a “ciò che si manifesta” applicando l’”epochè” ovvero la “sospensione del giudizio”, l’imparzialità. Si “contemplano” in sostanza i propri bisogni, impulsi e desideri astenendosi dal giudicare senza quindi la compulsione a far quadrare il circolo, a “chiudere le gestalt”. In greco il termine “fainomei” da cui deriva la parola fenomenologia  vuol dire “ciò che appare”, “ciò che si manifesta” e quindi il punto dell’indifferenza creativa così come della fenomenologia è appunto l’osservare con “indifferenza” ciò che emerge alla consapevolezza, osservare il fenomeno.

Altra influenza dell’Oriente nella psicoterapia della Gestalt è il Taoismo. Tutti sappiamo del simbolo dello Yin e dello Yang che esprime il concetto della polarità, della natura duale dell’uomo peraltro espressa anche in diverse altre culture compresa quella occidentale. Tale concetto della polarità nel Taoismo sottende allo stesso tempo il concetto di una integrazione superiore nel Tao, che rappresenta l’unità trascendente che accetta, vive e riconosce il diritto ad entrambe le manifestazioni. L’introduzione quindi prima in Perls, e successivamente con i lavori di Erving e Miriam Polster sulle “polarities”, della tecnica della “doppia sedia” in cui dialogano le parti in conflitto secondo la modalità dell’identificazione di tipo psicodrammatico, certamente ha ricevuto ispirazione da tale concezione. Il lavoro sulla doppia sedia è un’applicazione del presupposto che dobbiamo trovare le nostre polarità ed integrarle. L’assunto Taoista  è che non v’è un aspetto buono ed uno cattivo dell’essere umano (questo presupposto è piuttosto di origine cattolica) ma piuttosto che esistono due poli dell’individuo funzionali al suo sviluppo che vanno pertanto integrati allo scopo di promuovere il suo processo. Per il Taoismo, e allo stesso modo per la psicoterapia della Gestalt, si tratta più di funzionare a pieno regime piuttosto che diviso in due, quindi recuperare         l’ “ombra” di cui parla Jung o se volete il “lato oscuro” di cui si parla nel film guerre stellari che sono tutti simboli che si riferiscono all’identità rinnegata. La Gestalt non ha un orientamento “migliorista”, non ha a che fare con il raggiungimento di un ideale ma piuttosto auspica lo sviluppo dell’accettazione di ciò che c’è.Quindi dopo aver cercato di migliorare e migliorare per secoli e millenni e non esserci mai riusciti, ecco che da Nietzsche in poi  abbiamo questo cambio di tendenza e di ritorno all’umano, di ritorno al sé e all’accettazione di ciò che l’individuo è. A parte gli esistenzialisti anche molti autori della psicologia contemporanea hanno sottolineato questa posizione. Carl Rogers sosteneva che quando si fa attività di psicoterapia o di counselling non dobbiamo occuparci dei sintomi o dei problemi che i pazienti riferiscono ma piuttosto della persona, ovvero dobbiamo aiutare la persona a conoscere la propria gestalt, la propria forma, la propria struttura, la propria allucinazione affinché possa imparare a lavorare con se stesso per integrare le proprie polarità, per integrare le parti in divisione, le parti rifiutate, in una parola “a crescere”. Attraverso tale processo di crescita sarà la persona stessa che aiuterà se stessa. Si va al di là della tipica posizione passiva medico-paziente, del tipo “io so tutto e tu non sai niente! Siedi e apri la bocca che ti do la medicina che ti curerà!” La psicoterapia della Gestalt è orientata al risveglio dell’individuo e non alla sua consolazione, non ad “aiutarlo poverino perché sta male”. Perls sosteneva che aiutare il paziente è come dare il brodo di pollo al debole, al bebè. Lui dice che il paziente non si deve aiutare, lo si deve “aiutare” piuttosto nel senso di mobilitare le sue risorse, a sviluppare la sua capacità di risposta, ma non si dice “bevi che questo ti fa bene”, questa è una posizione passiva che è invece tipica di un altro tipo di approccio e che scompare con la Gestalt.

Continuando con le influenze nella psicoterapia della Gestalt un’altra importantissima proviene da John Christian Smuts che Perls ha incontrato in Sud Africa dopo esser fuggito dalla Germania nazista di Hitler (a cui paradossalmente diceva di essere grato perché a causa sua era scappato e quindi aveva evitato di fare la “brutta fine” dello psicanalista ortodosso). Smuts è considerato (con la solita arroganza occidentale visto che tale conoscenza esiste in Oriente da migliaia di anni) il padre dell’”Olismo“, termine che viene da “holos”, parola greca che vuol dire “tutto”, “intero”. Il senso è che anima, mente, corpo, emozioni sono un tutt’uno inscindibile. Non si può curare soltanto una parte dell’individuo ma bisogna comprendere che c’è un collegamento con tutte le altre parti. Anche nella medicina contemporanea c’è una nuova branca chiamata PNEI che è la sigla di un nome complicatissimo che è “Psico-Neuro-Endocrino-Immunologia” e che mette in relazione il sistema psichico, il sistema neurologico, il sistema endocrino e il sistema immunitario come collegati tra loro e non scissi, quindi in una modalità per cui ogni parte influenza il tutto.

Nella pratica psicoterapeutica della Gestalt non si presta attenzione soltanto alla “narrazione”, al racconto del problema del paziente o in generale alle dichiarazioni del suo disturbo, non ci si occupa esclusivamente dell’aspetto verbale, ma si osservano molti altri tipi di segnali, detti funzioni del contatto, tra i quali quelli corporei, per esempio come respira, come e se si muove mentre si esprime, la sua postura, come guarda, il linguaggio che usa, come si veste, ecc., e inoltre anche il tipo di emozione che sperimenta, sia che ci sia o che non ci sia. La congruità del comportamento con ciò che il paziente dichiara, per esempio se magari sorride mentre dichiara la rabbia o ha l’aspetto triste quando dichiara che va tutto bene. Si presta attenzione ai pensieri che gli passano per la testa invitandolo a dichiararli. Si presta attenzione anche alle sue convinzioni religiose e quindi a cosa gli dice la sua morale, ecc. C’è un complesso sistema di riferimento a cui è necessario prestare attenzione e che va considerato nella scelta del modo di intervenire sui suoi disturbi. Potrebbe accadere che se l’individuo per esempio ha un dolore alla testa magari anziché occuparci della sua testa potremo parlare di religione, perché forse in quel momento specifico quello ha più importanza di altre cose ed emerge in primo piano, oppure si può osservare come respira e chiedergli di riferire ciò che il suo modo di respirare gli suggerisce  mentre invece l’approccio più centrato sul sintomo non dà alcuna importanza a tutto questo ma si concentra piuttosto su di esso.

Un altro importante autore connesso con questa visione “olistica”che voglio citare è Von Ehrenfels, un precursore della ricerca Gestaltica, che all’inizio del secolo espresse il concetto che “il tutto è più della somma delle sue parti “, che significa che l’individuo non può essere considerato solo all’interno di uno dei suoi aspetti, come per esempio il suo sintomo: non è il mal di testa, non è l’emozione del momento ma è qualcosa di più che la somma di tutti i suoi aspetti, così come un’opera sinfonica non è semplicemente le somma delle sue note ma c’è un’anima, c’è uno spirito che mette insieme le cose. Questo è quindi un ulteriore invito a prestare attenzione al tutto, alla gestaltdell’individuo intesa appunto come un tutto che è più della somma delle sue parti.

In generale nella psicoterapia della Gestalt si assume  il principio che l’esperienza  non è né catalogabile né prevedibile ed ha la priorità su ogni ipotesi psicologica in quanto quest’ultima, per quanto sofisticata possa essere, rappresenta solo una mappa dello scibile umano e non il suo reale territorio  come sostiene Korzybsky nella sua formula “la mappa non è il territorio”.

In altre parole, questo significa che possiamo formulare tutte le visioni soggettive che ci pare come a proposito degli studi sulla percezione di cui ho detto precedentemente, possiamo vedere draghi, chimere, lune crescenti o calanti e quel che ci pare però questa rimane comunque una nostra produzione mentale, una fantasia. Tutte le formulazioni psicologiche sono soggettive. Viviamo in un tempo in cui risulta sempre più evidente l’assenza di fondamenta davvero stabili alle nostre conclusioni. Anche in una scienza da sempre considerata “esatta” come la Fisica, e mi viene in mente il libro eccellente, “Il Tao della Fisica” di Capra, che molti di voi conoscono, in cui si sostiene che i fenomeni osservati, come per esempio il movimento degli elettroni, non sono sempre gli stessi ma sono in relazione con l’ambiente, con le circostanze e in funzione dello stesso osservatore che influenza il campo essendone egli stesso parte. Questo significa quindi che con me funziona in un modo e con qualcun’altro in modo differente. Sembra quindi che tutto sia interdipendente e che non vi sia un dato certo che possiamo osservare perché noi stessi influenziamo il dato e quindi non possiamo avere dei risultati che siano stabili e sempre validi.

C’è un’altra influenza che voglio sottolineare perché è ugualmente molto importante ed è quella di Kurt Lewin e della sua “Teoria del Campo”.

Lewin era uno psicologo fenomenologo che ha messo in evidenza la interdipendenza tra l’individuo e l’ambiente. Non c’è solo corpo, emozione, pensiero e anima, ma c’è anche contesto tanto è vero che da quegli studi di Lewin nasce poi la teoria sistemica che è alla base della terapia della famiglia. Noi possiamo capire molto meglio l’individuo se lo vediamo all’interno del suo mondo vitale, del suo ambiente. La Gestalt quando lavora con le emozioni cerca sempre di trovare il loro contesto e oggetto: per esempio nel caso della rabbia si chiede al paziente “con chi ce l’hai (contesto)  e per cosa (oggetto)?”. Per esempio: “Sono arrabbiato con mamma, con papà … in una certa situazione ecc.”, quindi c’è un contesto e poi c’è anche l’oggetto, il motivo per cui si è arrabbiati; quindi noi dobbiamo sempre cercare di vedere all’interno del lavoro psicoterapeutico di trovare il modo e mondo di riferimento della persona.

La psicoterapia della Gestalt ha un orientamento ben poco cognitivo e molto  esperienziale: esperienziale significa che uno psicoterapeuta Gestaltista in seduta individuale o di gruppo, quando la circostanza lo permette, è un agente provocatore che tende a destrutturare le Gestalt fisse  e disturbate dei suoi pazienti; destrutturare la loro forma. Noi tutti siamo arroccati in forme che sono proprie del nostro carattere. Dall’insegnamento dell’Enneagramma sappiamo come il carattere,  termine che proviene dalla radice indo-europea “caracso” che vuol dire “stampato”, è una struttura fissa, una rigida modalità di risposta (fissazione) al comportamento del proprio contesto che poi l’individuo interiorizza applicandolo all’umanità intera, è una “forma” che l’individuo assume. Ognuno di noi ha un carattere, una forma e questo è inevitabile, ma quando questo è disfunzionale e un paziente chiede aiuto allora è necessario osservarlo con attenzione ed aiutare il paziente appunto a rendersi conto della sua forma, della sua gestalt.

Ci sono tre aspetti fondamentali con cui si lavora nella psicoterapia della Gestalt, il primo ha a che fare con l’“awareness”,  che significa consapevolezza. Lavorare con la consapevolezza vuol dire avere la disponibilità ad osservare se stesso, ad osservare il proprio processo nella condizione dell’ epochè , nella posizione dell’indifferenza creativa, cioè del prestare attenzione senza giudicare, semplicemente accettando di essere quel che si è, per esempio “ … ecco ora ho paura, sento ansia, sento difficoltà, sono eccitato, mi passano per la testa visioni di ieri in cui ho fatto questo o quello … sento vergogna ecc. ” tanto per fare un esempio di qualcosa di leggermente ”compromettente”, ma si possono dichiarare anche delle cose più soft come “sono consapevole di essere contento di vederti… o mi sento rilassato, ecc”. C’è di norma tutta una consapevolezza che normalmente è ingabbiata perché viviamo in un periodo in cui c’è un forte aumento della confluenza sociale con il forte rischio di essere depersonalizzati, di perdere l’anima individuale per averne solo una di massa.  La Gestalt peraltro continua ad essere ancora un movimento ribelle che crede nella possibilità di affermare il diritto alla propria differenza in una posizione esistenziale certamente anti-globalizzante.

Tale posizione comporta peraltro l’assunzione del secondo aspetto fondamentale della psicoterapia della Gestalt che è quello di “responsabilità la quale sempre ha un costo, non è gratis. Alle volte magari è meglio  nascondersi per non essere visto e per evitare un conflitto che non ci si sente di poter affrontare e semplicemente adattarsi ad una situazione che per il momento non può essere cambiata, altre volte si deve invece parlare più forte per farsi sentire anche se non sempre è necessario correre i rischi di un Socrate a cui hanno fatto bere la cicuta o di Giordano Bruno che hanno messo al rogo. Un Gestaltista non è che ha aspirazioni suicide. Non è una questione di comportamento isteroide orientato alla drammatizzazione come spesso mette l’enfasi l’atteggiamento cattolico che esalta il martirio, il sacrificio mistico.  Non sto dicendo, e lo voglio sottolineare, che è sbagliato sacrificarsi, sto soltanto dicendo che non è una via obbligata. Se uno vuole e ne è convinto in certe situazioni va bene, perché magari è spinto da compassione e può anche rinunciare a se stesso per amore di qualcuno o di qualche idea, però non è detto che dobbiamo per forza seguire la via del sacrificio. Quando si è in contatto con gente che non capisce o che può anche essere pericolosa si può anche scappare; non è che per forza si deve stare lì a cercare di convincere o cambiare, ma magari si girano i tacchi e si va via, finito! Quindi non è il caso di insistere eccessivamente quando non serve, né è tanto sano a mio avviso, avere la compulsione di dover “salvare il mondo” a tutti i costi.  Nella visione Gestaltica il punto non è cambiare il mondo; il mondo è quello che è. Più nello specifico non è cambiare la mamma, il papà, non è cambiare gli stili di vita degli altri ma piuttosto bisogna sviluppare una capacità di risposta (respons-abiltà) mobile, cioè adeguata alle circostanze, alle situazioni in cui ci si trova.

Respons-abilità” inoltre non vuol dire soltanto per esempio che ho dei figli e quindi ho una responsabilità verso di loro, ma in senso Gestaltico significa principalmente avere la “abilità di rispondere”. Per esempio se divengo consapevole di un fenomeno che mi crea un disagio, cosa posso fare? In che modo posso rispondere? Bisogna appunto sviluppare una abilità di rispondere il più adeguata possibile alla situazione. Per esempio la depressione è una risposta anche se generalmente non è una buona risposta per quanto molto comune. Posso pure rispondere con la rabbia ma anche questa spesso non è una buona risposta per via dell’alto rischio personale e sociale e di distruttività. Posso rispondere cercando di capire la situazione e con il fare delle scelte o delle richieste e questa potrebbe già essere una risposta più funzionale. Posso inoltre rispondere andandomene e spostando il fuoco altrove, o ridendo, cantando, facendo dell’umorismo, scrivendo poesie e così via. Vi sono infinite possibilità ma il più delle volte si tende a seguire gli stessi giri viziosi di sempre, ovvero quelli che ci sono più familiari, quelli in cui abbiamo avuto l’imprintingparentale e sociale.

Molto spesso quando le persone hanno un problema sono contratte. Perls dice che la nevrosi è la somma delle gestalt aperte cioè dei processi di auto-interruzione. Ci si interrompe continuamente dal sentire, dall’essere, dallo sperimentare qualcosa. Ci sono degli studi di psicobiologia di Laborit e di diversi altri autori che hanno sottolineato come la formazione del sintomo, la malattia psicosomatica spesso deriva dall’inibizione all’emozione e all’azione. La parola “emozione” viene da ex-movere, che vuol dire qualcosa che si muove…, quindi il “non muovere l’emozione”, il non esprimere, il non sperimentare forma il sintomo. Io vedo un’unica energia, non tante energie, un’unica energia che può essere trattenuta nelle braccia perché qui può essere localizzato il “doverismo” della mamma o del  papà che dice di “non essere”, “non muovere”; oppure questa energia può essere trattenuta negli occhi, nell’ano, nel torace, può essere bloccata in tante parti del corpo perché ogni essere umano ha paura, si trattiene da qualcosa. Il punto di svolta della salute psicofisica sta nel trovare il modo per poter essere finalmente ciò che si è senza sentirsi obbligato a compiacere qualcun altro ma essere ciò che si è. Bisogna ritornare nei limiti del possibile al sentire, al manifestare, all’essere.

Il terzo aspetto della psicoterapia della Gestalt è che la conseguenza della consapevolezza (awareness) e della responsabilità (respons-ability) è il “cambiamento del comportamento” o sviluppo dell’ “integrazione”. La Gestalt in questo senso è anche una terapia comportamentale in quanto è orientata alla modifica del comportamento disfunzionale dell’individuo sia nei confronti del sé che del contesto e in tal senso possiamo osservare anche l’influenza di un’altro approccio contemporaneo alla conoscenza che si chiama “Costruttivismo” che significa molto genericamente che io costruisco qualcosa insieme a te. Non lo so a priori cosa e come fare, non ce l’ho in dotazione, predeterminato, il rapporto tra me e te è tutto da inventare, appunto da “co-costruire”. Io ti dico chi sono io e ciò che voglio e tu mi dici chi sei tu e di quello di cui hai bisogno; non è detto che a te debba piacere quello che dico io e ciò che voglio però almeno riconosci che io la penso così e puoi chiederti se in questa relazione sei interessato o no, se ti piace o non ti piace, piuttosto che devi o non devi e così prendi la tua posizione, e se tutto va bene si costruisce qualcosa insieme.

Dal punto di vista del Costruttivismo in fondo non è tanto importante capire sin nelle intime profondità dell’essere o dello spirito ma ciò che importa è riuscire a modificare il modo di contatto con se stesso e con il mondo in modo che diventi più funzionale e meno problematico. Per usare una metafora, la chiave non ha bisogno di conoscere come è fatta una serratura ma deve solo limitarsi ad aprirla.

La Gestalt, successivamente all’ingresso di Perls negli Stati Uniti dove ha presentato il metodo e lavorato con i suoi collaboratori, si è ramificata in tre scuole. Una è la scuola Californiana localizzata principalmente ad Esalen, dove c’erano lo stesso Perls, Jim Simkin, John Stevens, e tutti i suoi più stretti collaboratori del tempo, ed è chiamatala “scuola viscerale”. C’era poi la scuola di Cleverand capeggiata da Erving e Miriam Polster chiamata anche “del cuore” ma molto vicina a quella Californiana in modo tale che per alcuni autorevoli Gestaltisti veniva comunque considerata come parte di quella “viscerale” californiana, mentre invece la scuola di New York, della anche “della testa”, facente capo in modo particolare a Laura Perls e Isadore Fromm era decisamente di diverso orientamento. Quindi c’erano queste tre scuole che erano un po’ “polari” come tra indiani e cowboys. I cowboys erano quelli della scuola di New York che aveva un orientamento molto piùcognitivo tenendo anche presente che essa operava con  l’Università newyorkese e che quindi probabilmente doveva maggiormente sottostare a vari compromessi per poter essere appoggiata nel suo sviluppo. Naturalmente questa è solo un opinione. Ma noi sappiamo che da sempre i fenomeni, ovvero in questo caso le scuole e i pensieri, si devono confrontare con la realtà, il contesto e  la politica del proprio tempo e probabilmente per sopravvivere a New York la Gestalt ha dovuto in qualche modo “ufficializzarsi” con tutti i cosiddetti crismi “scientifici” o pseudo tali.

Ora, queste tre posizioni continuano ad esserci…. Cuore, viscere e testa, sono peraltro tre aspetti dell’individuo e anche se personalmente dissento dalla posizione della Gestalt ad orientamento eccessivamente cognitivo posso comunque riconoscerne il diritto di cittadinanza e l’utilità. D’altra parte io mi sono interessato alla Gestalt perché mi aveva dato l’impressione di permettere la manifestazione dell’individuo reale quale egli è, con l’accettazione della sua spontaneità e vissuti per quanto potessero essere “difettosi o sbagliati” e soprattutto perché era anti-autoritaria, anti-dogmatica, a grande distanza dalla figura standardizzata dello psicologo decisamente di tipo “aboutist” ovvero di “operatore distaccato”. Credo che se mi fossi trovato davanti a un simile approccio ne avrei scelto senz’altro qualche altro. La gran parte dei Gestaltisti con cui mi sono formato erano capaci di  mettersi in gioco, di dichiarare senza troppi problemi le proprie difficoltà ed esitazioni dalla propria posizione  di eccellenti fenomenologi quali erano, senza farsi troppi scrupoli di essere approvati, accettati o apprezzati. Erano “persone reali”.

Personalmente prediligo la via “viscere/cuore” anche se certamente nella mia posizione di psicoterapeuta ho avuto soltanto da guadagnare nello sviluppare un punto di accettazione per le differenze e questo significa che se prendo contatto con un intellettuale non significa che abbia un rifiuto a priori e lo mando via! Ognuno ha i sui limiti, io ho i miei e lui ha i suoi e quindi faccio del mio meglio per lavorare con la circostanza in cui mi trovo.

Per ciò che mi riguarda nella vita privata, come tutti noi, non frequento le persone che non mi piacciono o con cui non mi sento di aver qualcosa da condividere. Non ho voglia di obbligarmi a farlo solo per essere “aperto” anche se alle volte faccio un po’ di “esercizio di integrazione”, in altre parole mi sforzo di osservare in me stesso ciò che nell’altro mi infastidisce allo scopo di scoprire eventuali mie dinamiche cosiddette “transferali”, ma ciò non significa che io abbia fatto il voto di dover amare il mondo e di essere esente da limiti personali. Lo stesso discorso vale con i miei colleghi siano essi Gestaltisti che di qualunque altro approccio. Con alcuni mi va di collaborare ed ho un ottima relazione mentre con altri affatto. Con questi ultimi sto a sentire, magari posso apprezzare il loro modo di scrivere, posso leggere il loro scritti quando mi sembrano fatti bene, però quando li incontro personalmente magari sento che “visceralmente” non ho niente da spartire e pertanto è difficile che si sviluppi una qualche relazione più che formale.

La Gestalt è stata introdotta in Italia da Barrie Simmons negli anni ’70, quindi stiamo parlando di più di trenta anni fa. Io ho cominciato con lui la mia formazione e faccio parte della prima generazione di Gestaltisti italiani. Molti dei miei colleghi di allora hanno fondato negli ultimi anni delle scuole di psicoterapia della Gestalt. In quel tempo la formazione trasmessa da Simmons era centrata sullo sviluppo dell’”autenticità”, dell’onestà, se non altro con se stessi. L’enfasi centrale stava nel prendere contatto con ciò che si sperimentava davvero e nell’avere il coraggio di esprimere il proprio vissuto e pensiero piuttosto che ricorrere alla manipolazione adattiva, all’accomodamento, ecc… Tra le caratteristiche di quella prima Gestalt che principalmente si praticava in gruppo, vi era senza dubbio anche la possibilità di esprimere il dissenso, il fastidio, la rabbia. Vi era la possibilità del conflitto, della lite, della differenza anche se non necessariamente doveva essere così. Vi era quindi il riconoscimento del diritto di litigare. Per ciò che mi riguarda se non litigo sto meglio, perché a me litigare non piace, preferisco andare d’accordo, almeno nella mia attuale fase di sviluppo. D’altra parte se proprio lo ritengo necessario me lo permetto, soprattutto se credo possa servire a qualcosa. Non mi piace confluire, dire “ah che belli che siamo, siamo tutti i fratelli, vogliamoci bene”, non mi piace l’ipocrisia; io voglio bene a qualcuno  solo perché sento di volergli bene, ma se non gli voglio bene, anzi, magari se proprio non lo sopporto ho il mio onesto riconoscimento della mia consapevolezza e se mi risulta necessario dichiararmi, se non altro per la chiarezza della relazione, mi sforzo di farlo: “ecco non mi va che … o non sopporto di …”. Secondo me bisogna imparare ad avere il coraggio per lo meno di essere consapevoli di questi sentimenti. La Gestalt sottolinea l’originalità dell’individuo, io sono così, se non ti piaccio me ne vado, non c’è problema, se ti piaccio è bello. Cito la famosa poesia Gestaltica di Perls:” io sono io e tu sei tu, io faccio la mia cosa e tu fai la tua, io non sono a questo mondo per soddisfare le tue aspettative e tu non sei a questo mondo per soddisfare le mie, se ci incontriamo è bello, sennò non c’è niente da fare“.

La Gestalt proviene e si è diffusa principalmente ad opera di Fritz Perls che era un “viscerale”. Egli era diretto e immediato nell’esprimere “la sua cosa”. La Gestalt, come egli sosteneva, è un modello psicologico e filosofico che “si regge sulle proprie gambe” ed è più autosostenente di altri modelli; alcuni ad esempio si appoggiano alla politica come l’esistenzialismo comunista di Jean Paul Sartre, altri si appoggiano alla religione come quello cristiano di Soren Kierkegaard,  invece la Gestalt si regge su se stessa, cioè si regge sul fatto che l’individuo è ciò che è: “io sono ciò che sono e non posso fare a meno di essere quello che sono”, questa era la sua affermazione senza bisogno di appoggi.

Continuando con le scuole di pensiero che hanno influenzato la psicoterapia della Gestalt certamente bisogna ringraziare Eric Berne e la sua Analisi Transazionale per la focalizzazione sulle “transazioni”. Le transazioni sono tutta una serie di modi di fare e di relazionarsi tra individui come comunicazioni, messaggi e frasi che denotano uno stile, una modalità di relazione e che nella vita delle persone si incominciano ad interiorizzare nell’infanzia attraverso le note ingiunzioni genitorialiche sono delle trasmissioni di comportamenti stereotipati che si esprimono con frasi del tipo: ”tu non devi essere”, “tu non devi sentire”, “non pensare che”, ecc. Sono messaggi che poi, come vedremo meglio quando verranno trattati i meccanismi di difesa e le resistenze, formano gli introietti  che praticamente boicottano la vitalità interrompendo il flusso espressivo dell’individuo.

Perls era un sostenitore ed evocatore dell’elan vital  di cui parla il filosofo Henry Bergson, di questa fiamma vitale interna che spinge l’individuo verso il suo scopo, al di là delle sue forme impaludanti e che lo fa sentire vivo. Questa tendenza, come meglio vedremo più avanti esprime la funzione propria nella natura umana dell’autoregolazione organismica, in altre parole la sua tendenza alla guarigione dal disturbo, sia esso di natura fisica che emozionale che intellettuale. Egli favoriva e stimolava tale funzione in qualità di provocatore che esortava a liberarsi dagli invischiamenti, a liberare la propria forza. Alcuni sostenevano che più che uno psicologo  fosse una sorta di sciamano per questa sua capacità di far emergere la natura istintuale dei pazienti svelando le loro transazioni e successivamente aiutandoli a ripristinare la condizione originaria sotto le introiezioni.

Altra grande influenza viene dallo Psicodramma di Moreno specie nella versione delmonodramma e della “sedia calda” o “hot seat”. Moreno, applicando nel contesto psicoterapeutico alcune tecniche derivate dal teatro, attraverso la drammatizzazione delle situazioni conflittuali, con l’invito a ri-sentire, a ri-sperimentare i propri vissuti, ha trasmesso un grosso impulso allo sviluppo della consapevolezza e della modalità di risposta dei pazienti.

Uno dei principi della psicoterapia della Gestalt è quello di “non parlare delle cose o di qualcuno” ma piuttosto di “stare nelle cose e di parlare direttamente a qualcuno”, questo per non praticare la posizione dell’ “aboutism” (dell’”intornismo”) che Perls attribuiva agli osservatori non coinvolti nello stile psicoanalitico. Quindi egli sosteneva che non andava bene “stare intorno” alle cose ma piuttosto era necessario “calarsi dentro” le cose. In questo atteggiamento si può riconoscere l’influenza del Buddismo Zen che afferma appunto che “l’unico modo per conoscere qualcosa è diventare la cosa stessa”. In Gestalt infatti si invita il paziente a non parlare dell’emozione vissuta ma piuttosto di identificarsi in essa… divenire l’emozione. Quindi piuttosto che dire per esempio “sento rabbia” o “tristezza”, ecc., gli si chiede di “divenire la rabbia, la tristezza” e così via. Lo si invita a sperimentarsi essendo l’emozione ed a sviluppare un dialogo con se stesso. Questa tecnica ha lo scopo di rendere fenomeno ciò che altrimenti rimarrebbe un semplice pensiero. Ri-sperimentando fenomenologicamente il vissuto è possibile lavorarci per integrarlo nella personalità. Nello Zen c’è questo assunto conoscitivo, ne parla Suzuki, che era sia uno psicanalista che un esperto di Zen: egli sottolineava che “se si vuol conoscere una rosa devi diventare la rosa”, e in Gestalt si applica proprio questo approccio alla conoscenza. Se vuoi capire tua madre devi diventare tua madre, sii tua madre, se vuoi capire un sintomo divieni il sintomo e così via….

Prima ho parlato della posizione “intornista”, perché Perls indicava appunto tre modalità di contatto tra individui che sono l’ “aboutism”, il “shouldism” e l’”existenzialism”. La modalità dell’”aboutism” che in italiano ho tradotto come “intornismo” è come ho detto caratteristico un po’ di quella classe medica o di “tecnici” della relazione che non praticano la posizione fenomenologica, che non sono all’interno della condivisione del fenomeno. Sono operatori distaccati che girano intorno alla relazione ma non ci sono come presenza umana, come persone. L’approccio medico tradizionale, e non solo quello ma anche di tutta una serie di altre categorie professionali della relazione d’aiuto, si caratterizzano nell’evitamento dello stare dentro la relazione. Si tende ad essere “operatori con il camice”, c’è distanza di rapporto. Il modello Gestaltico di tipo viscerale è invece quello per cui si presuppone che esista l’operatore (medico, psicologo, counsellor, ecc.) come persona. Nella terapia della Gestalt la tecnica è secondaria poiché quello che conta di più è la presenza del terapeuta. Si possono usare mille tecniche sofisticate ma non succede nulla, non si trasmette nulla, mentre invece se c’è presenza, una presenza umana di accettazione delle persone, accade qualcosa. Molti, anche se non tutti, dei terapeuti con cui ho lavorato si sono manifestati come persone particolarmente umane, umili e capaci di mettersi in discussione manifestando le proprie emozioni. Durante un workshop con Barrie Simmons, ricordo di essere entrato in contatto con una mia profonda tristezza e di aver pianto. Barrie, commosso piangeva anche lui ed intorno a noi vi era il gruppo che partecipava a sua volta in modi diversi. Ricordo che poi in occasione del feedback dell’esperienza alcuni hanno dichiarato di essere stati po’ invidiosi perché noi si piangeva così felicemente e loro ne erano rimasti un po’ fuori. “Piangere felicemente”, piangere con gioia, qualcuno mi ha parlato recentemente del “pianto felice” e io lo capisco perché è così, è una cosa liberatoria, di solidarietà, di contatto, di vicinanza, di umano, quindi un terapeuta Gestaltista per me ha un valore se è un “buon” essere umano.

Poi la seconda modalità di contatto che è anche la seconda categoria di persone di cui parla Perls è quella del “shouldism” e cioè del “doverismo”. Questo atteggiamento lo ritroviamo nelle vecchie scuole comportamentiste, ma non tanto in quelle contemporanee che sono certamente tolleranti ed accettanti dell’emotività, della diversità, del “limite” ed che hanno sviluppato anche un lavoro con l’emozione, mi riferisco invece alle forme di vecchio comportamentismo nello stile del film di Stanley Kubrick “Arancia meccanica” in cui ti costringono a modificare il tuo comportamento attraverso associazioni indotte con il dolore o la frustrazione, tipo le scariche elettriche “pavloviane” al cane o al topo per modificare le sue risposte, anche se magari nel film tale atteggiamento sarebbe anche potuto essere comprensibile vista la natura criminale del soggetto, ma il problema è che evidentemente non sempre ci sono “ottime ragioni” per condizionare i comportamenti: abbiamo visto l’uso improprio della coercizione in molti casi psichiatrici per cui tu devi essere in un certo modo, devi pensare in un certo modo, o ti adatti o sei rifiutato se non peggio come l’elettroshock. Ricordo, per esempio, il film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Il “doverismo” lo troviamo un po’ dappertutto nel mondo del moralismo e delle prediche sociali, da quelle di tipo cattoliche alle più autoritarie di certi ambiti della nostra società: “stai zitto,obbedisci e basta, non discutere, tu devi fare quello che ti dico, ecc”. Questa è la corrente del doverismo.

La terza categoria di persone di cui parla Perls e nella quale si inserisce il movimento Gestaltico come abbiamo visto prima è quella degli “esistenzialisti”. Perls si riferisce in modo particolare a quei presupposti di base della corrente filosofica che sostengono il riconoscimento dell’originalità degli esseri umani sottolineandone l’unicità individuale. Gli individui vanno accettati per quel che sono e va rispettata l’esperienza soggettiva ed il carattere individuale e singolo dell’esistenza (Nietzsche) ed in modo particolare quegli aspetti negletti dall’idealismo/doverismo della cultura orientata all’ottimismo romantico ispirata alla Ragione assoluta precedente che per primo fu criticata da Kierkegaard e che ben poco avevano a che fare con la realtà della gente.

D’altra parte, pur riconoscendo  il carattere problematico della manifestazione umana (con l’accettazione della presenza dell’angoscia, della noia, della nausea, ecc), nella Gestalt si mantiene tuttavia la possibilità esistenziale di poterle superare, rifiutando quindi di considerarle come condizioni ineluttabili. Perls si riallaccia all’esistenzialismo umanistico (esistenzialismo italiano, Merleau-Ponty, Camus, ecc.) ove piuttosto che sostenere l’impossibilità della modificazione degli aspetti negativi dell’esistenza come nell’esistenzialismo ontologico di Heiddeger, Jaspers e Sartre o del rimettersi al volere di Dio come nell’esistenzialismo fideistico di Gabriel Marcel e Bultmann ci si dedica piuttosto a fare il possibile per modificare quegli aspetti sui quali si può far qualcosa, posizione questa da cui proviene poi il concetto di respons-abilità che è cioè lo sviluppo della capacità di rispondere propria dell’essere umano.