Published On: 16 Ottobre 2013Categories: Articoli, La Rivista

Di Bruno Callieri

Pubblicato sulla rivista “Formazione IN Psicoterapia Counselling Fenomenologia” n° 1, gennaio – febbraio 2003, pagg.6-11 , ed. IGF. Roma

 

Per Psicopatologia Fenomenologica si intende un’insieme di impostazioni metodologiche che mirano a cogliere e descrivere gli eventi psicopatologici nel loro darsi immediato, nell’incessante divenire dei vissuti.

Tutte le psicopatologie fenomenologiche presuppongono una visione del mondo che sospende sia l’atteggiamento ingenuo della psicologia del senso comune sia la questione psicofisica (considerata metafisica)  quindi anche quella della causalità degli accadimenti psichici abnormi. Nel loro insieme questi indirizzi valorizzano il ruolo della coscienza come facoltà in grado di percepire e comunicare gli accadimenti psichici soggettivi, cioè come luogo (contemporaneamente virtuale e incarnato) della costituzione percettiva, progettuale e relazionale dell’identità soggettiva dell’individuo e del suo rapporto col mondo (mondo interumano).

Su questi presupposti generali, gli indirizzi fenomenologici in psichiatria hanno attratto ed attraggono tutti quegli psicopatologi che rifiutano la riduzione dello psichico a parametri meramente naturalistico-oggettivi, sia che essi siano declinati in termini biologici (Psichiatria Clinica in senso stretto), che psicologici (Behaviourismo, Cognitivismo) o sociologici (teorie sistemico-relazionali, sociopsichatria).

L’intento antiriduzionistico della Fenomenologia, comportando la costante apertura all’orizzonte di senso proprio ad ogni accadimento psichico (normale o abnorme), ha imposto agli psicopatologi un incessante, dialettico ed ininterrottamente aggiornato confronto col pensiero filosofico.

La storia della psicopatologia fenomenologica italiana appare non priva di elementi di imprevedibilità e di ironia; la sua sopravvivenza è stata assicurata da poche figure di riferimento, alcune delle quali provviste di un esemplare, costante rigore metodologico e di una cultura enciclopedica; i non molti giovani affascinati da quest’ambito di ricerca e di prassi per i motivi vocazionali di sempre (insofferenza al riduzionismo) si sono però dovuti confrontare con una realtà operativa che -schiacciata tra le pressioni socio-ambientali e l’arida routine farmacoterapeutica- smontava sistematicamente le aperture epistemologiche della Fenomenologia nella loro potenziale praticabilità.

La stabilizzazione operativa di questi ultimi anni e la tacita compatibilità, quando non l’integrazione sinergica con gli altri indirizzi psichiatrici (clinico-biologici, sociopsichiatrici, psicoterapeutici) ha forse creato condizioni più favorevoli alla ripresa ed al ripensamento delle maggiori lezioni di psicopatologia fenomenologica in una direzione che in linea generale prevede maggiori possibilità di confronto con gli orizzonti naturalistici di quanto avveniva un tempo.

Attualità dell’atteggiamento fenomenologico in Psicopatologia

La fenomenologia per sua natura è una prassi conoscitiva in perpetua metamorfosi ed in continuo ricominciamento; non si qualifica per determinati riferimenti culturali ma si genera in chiunque ne incarni lo spirito, e sempre in modo imprevedibile ed originale. E’ questa la sua debolezza e la sua forza. Alle soglie del terzo millennio, in tempi di assoluto dominio degli indirizzi clinico-nosografici e biologici e di particolare crisi della stessa nozione di psychè, è possibile pensare all’insegnamento della Psicopatologia Fenomenologica solo come ad una permanente ed inesauribile apertura agli orizzonti critici e ad una risorsa ineliminabile per la creatività e l’originalità nel cogliere, descrivere, trascrivere e comunicare gli accadimenti di vita.

La dimensione fondativa di ogni psicopatologia fenomenologica e le sue articolazioni tematiche tradizionali continuano a vivere à cotè delle procedure cliniche canoniche, attivando modalità conoscitive integrative nei confronti di quelle empiriche ed operative, di cui consentono di colmare le lacune nel continuo tentativo di oltrepassare i limiti. Reciprocamente, lo sviluppo e la diffusione di procedure di conoscenza clinica sempre più attente ai criteri di affidabilità, validità e falsificabilità, hanno contribuito a far risaltare alcuni limiti (ed anche, perchè no, errori) delle tradizionali prassi fenomenologiche, quali la scarsa operazionabilità, l’indistinzione tra i concetti di “disturbo” e di “persona”, la debolezza (se non l’inutilità) euristica di fronte a tutta la psicopatologia fondabile su base somatica nota, i rischi di validazione tautologica e di compiacimento linguistico.

Per quanto riguarda l’ambito delle teorie della mente, basti pensare al fatto che in ultima analisi <<le neuroscienze non sono sufficienti  a spiegare la coscienza fenomenologia, cioè “quello che si prova” ad essere se stessi>>, per riconoscere che a questo livello ci troviamo (e forse sempre ci troveremo) al punto da cui partirono, tra gli altri, William James, Franz Brentano ed Edmund Husserl, e constatare che ancora oggi le incursioni più geniali in questo “impossibile” campo di indagine sono fenomenologiche ed eidetico-esistenziali.

Un’altra, e non trascurabile, ragione di attualità dell’impostazione fenomenologia ed antropologica è data dal fatto che solo essa è in grado di chiarire e far emergere i fondamenti di ogni atteggiamento psicoterapico. La sfera empatica e dialogica dell’afferramento eidetico, la disposizione all’incontro con l’altro, anche nell’apparente estraneità delle sue strutture costitutive, secondo i modi propri all’incontro Io-Tu e all’illimitata apertura alla significanza dei processi simbolici e rappresentativi, costituiscono i momenti fondativi di tutte le psicoterapie non comportamentali, indipendentemente da quali siano le loro articolazioni tecniche. Benché la questione dell’esistenza o meno di una psicoterapia fenomenologica (o, più recentemente, “ermeneutica”) e della sua compatibilità o meno con altri indirizzi psicoterapici (in primo luogo quelli psicoanalitici) sia stata e sia tuttora fonte di insolubili controversie (Calvi, 2000), non c’è dubbio che – almeno a fronte dell’inaridimento generale dei momenti dialogico-comprensivi nel campo clinico-diagnostico – gli psicopatologi ad orientamento fenomenologico, con la loro attenzione ai movimenti percettivo-empatici, ideologici ed ermeneutici nel rapporto coi malati, si trovino necessariamente ad essere disposti ad una prassi psicoterapeutica molto impegnativa e valida.

Inoltre, la sempre maggiore attenzione rivolta alla metafora, non come una mera figura retorica, ma come modalità conoscitiva comune ad ogni prassi psicoterapeutica, viene a sostenere ulteriormente l’applicabilità psicoterapeutica dell’atteggiamento fenomenologico che delle metafore viventi ha sempre fatto consapevole uso e ricerca.

Il setting psicoterapico dello psicopatologo atteggiato fenomenologicamente coincide con le sue modalità di presentarsi e relazionarsi col malato, con la sua sensibilità, plasmata dalla sua formazione (culturale e clinica) e dalla sua esperienza, con la sua disponibilità verso qualunque declinazione esistenziale, anche patologica ed anche molto in là con gli anni; non potendo non portare se stesso nella situazione dell’incontro, egli crea le condizioni per processi conoscitivi che non si riducano a meri esercizi contemplativi o intellettuali.

Lo psicopatologo orientato fenomenologicamente è, probabilmente e forse radicalmente, un anarchico sul piano epistemologico (nel senso di Fayerabend) sia per la sua insofferenza di codici e regole obiettivanti che finiscono inevitabilmente per coartare o scotomizzare le risonanze di senso degli accadimenti psichici, sia perché ogni ingenuità ed ogni illusione (anche quella di descrivere naturalisticamente e dominare tecnicamente la natura) non possono più far parte del suo apparato conoscitivo; nello stesso tempo un atteggiamento fenomenologico vitalmente incarnato è l’unico a garantire la disposizione alla scoperta e alla meraviglia, nonché la perpetua interrogazione sul senso antropologico della prassi psichiatrica.

Come una specie di Giano bifronte, lo psicopatologo fenomenologicamente formato vive sulla propria pelle il carattere perpetuamente antinomico dei fenomeni psichici, visibili, a seconda della distanza e della partecipazione empatica, come dati oggettivi e deificabili o come rivelazioni soggettive irriducibili ed originali.

Le “buone letture” di psicopatologia fenomenologica riflettono complessi e spesso tormentati percorsi conoscitivi individuali e rappresentano sempre un’ottima palestra per lo sviluppo di un pensiero scettico e critico; sono veri strumenti coinvolgenti, atti a disporre il singolo psicopatologo a sospendere l’adesione agli schemi conoscitivi precostituiti e a sviluppare un proprio percorso concettuale, dislocato perché aperto all’originalità, intesa questa come la modalità più autentica di rivelarsi dell’uomo in quanto tale (in quanto coscienza incarnata intenzionale); ciò anche e forse soprattutto quando ci si viene a trovare in quelle situazioni limite che minacciano la struttura stessa della propria identità. Forse non molto diversamente da chi ha effettuato un’analisi personale, l’aver più o meno estesamente e profondamente frequentato la letteratura e gli autori della Fenomenologia lascia un’impronta indelebile nell’identità personale oltre che nella formazione professionale, anche se si tratta di esperienze e percorsi che per definizione devono essere superati (ma anche continuamente rinnovati) per poter dire che si sono attraversati. In questo senso la tesi lapidaria di Merleau-Ponty (1945), citata quasi ossessivamente negli scritti di psicopatologia fenomenologica (“La Fenomenologia si lascia praticare e riconoscere come maniera o come stile ed esiste come movimento ancor prima di essere giunta a una piena coscienza intenzionale”) sembra aver accresciuto negli anni il suo valore intuitivo.

Per un apparente paradosso, dunque, il rigore auspicato da Husserl allorché, provenendo da studi logici e matematici, pretese col passaggio dalla psicologia fenomenologica a quella trascendentale di fondare una scienza forte (eine strenge Wissenschaft), si mantiene; ma si mantiene frantumato soltanto nell’intensità e nell’esattezza con cui ogni psicopatologo impostato fenomenologicamente riesce a trovare nella singolarità trasparente ed autoevidente della propria esperienza (soprattutto se condivisa o condivisibile nell’intersoggettività della prassi clinica) l’unico criterio di superamento del piano doxico (cioè dell’opinabile) in quello eidetico (cioè dell’essenziale). Fin troppo spesso i risultati della psicopatologia fenomenologica finiscono così per assomigliare molto di più agli atti psichici creativi propri dei poeti, dei filosofi, dei letterati e degli artisti in genere, che non a quelli della ricerca scientifica naturalisticamente fondata: ad essere cioè molto più una ricerca di dicibilità, un’estetica e/o un’etica dell’umana esistenza che non usa una prassi scientifica. E’ forse qui che va situato il mio attuale interesse per l’analisi narrativa, quasi in alternativa all’analisi esistenziale.

E’ tuttavia possibile individuare una gradualità nella divaricazione epistemologica che si genera in questi esiti. Esistono cioè psicopatologi (o momenti diversi in uno stesso psicopatologo) in cui l’atteggiamento clinico-naturalistico e quello fenomenologico si integrano o si disarticolano in misura diversa; altri in cui l’impeto fondativo autonomo della Fenomenologia si emancipa di più o di meno dalle comuni e canonizzate prassi diagnostiche e terapeutiche.

In pratica ogni psicopatologo ad orientamento fenomenologico, nel continuo tentativo di afferrare gli elementi costitutivi precategoriali, le modalità formali dei vissuti psichici abnormi, il loro declinarsi sempre in un contesto intersoggettivo, ha costruito e ricostruito un proprio orizzonte concettuale e semantico, sovente in una ricerca incessante di metafore viventi. Ciò si fa partendo dai temi della psicopatologia generale e clinica, in dipendenza dalle matrici culturali della propria formazione e del proprio soggettivo modo di sentire e vivere riflessivamente su di sé gli accadimenti psicopatologici. I nomi più noti della psicopatologia fenomenologica rappresentano quindi sempre figure di grande spessore intellettuale, autori di testi che mantengono intatto nel tempo il loro valore, sottraendosi alla rapida obsolescenza della maggior parte della letteratura psichiatrica, ma per lo più isolati e solitari nel loro cammino.

Da questa sintetica visione d’insieme di una storia ormai ultracentenaria risulta chiaramente che non esiste una Psicopatologia Fenomenologica ma una serie plurivoca e potenzialmente infinita di concezioni soggettive fondate su un comune atteggiamento di fondo: la tensione a far emergere e risaltare l’inesauribilità del compimento di senso e di significato di ogni singola esperienza clinica e terapeutica.

Si possono leggere questi risultati come la storia di una continua deriva concettuale all’interno di un movimento di pensiero, analoga sotto certi aspetti a quella del movimento psicoanalitico; diversamente da quest’ultima disciplina tuttavia, la ricerca di una validità oggettiva, o quanto meno di un’ortodossia metodologica, sono rimaste in genere estranee alla psicopatologia fenomenologica, che ha finito per essere rappresentata da una serie  di “compagni di strada” piuttosto che da istituzioni e scuole.

E’ possibile rintracciare nel riferimento generale alle tesi non certo positiviste di Dilthey e Scheler, soprattutto quella del carattere necessariamente intenzionale della coscienza di Franz Brentano e successivamente, il richiamo più o meni rigoroso alle varie fasi del pensiero fenomenologico di Husserl (psicopatologie fenomenologiche in senso stretto) ed a quello esistenzialistico di Heidegger (correnti antropofenomenologiche e/o daseinsanalitiche); è questo il tronco comune generativo che, dai Paesi di lingua tedesca è fluito in Francia con l’intuizionismo bergsoniano, in Nord America con la Psicologia cosciezialistica (approdata ad una critica radicale della nozione stessa di coscienza) di William James e, successivamente, di altri variegati indirizzi.

La Psicopatologia generale di Karl Jaspers (1913-1959) e la Psicopatologia clinica  di Kurt Schneider (di cui l’ottava edizione nel 1967) possono essere ritenuti i testi di riferimento metodologico per l’applicazione del pensiero fenomenologico alla clinica psichiatrica. Essi nel tempo hanno mantenuto il più ampio consenso in virtù della rigorosa definizione della doppia fondabilità(somatologica e psicopatologica) della nozione di malattia mentale, della chiara enunciazione dei limiti empirici della Psicopatologia, cioè delle possibilità comprensive (statiche e genetiche; tematiche piuttosto che formali), ma anche per la costante attenzione al loro possibile superamento.

Il sinuoso crinale della nozione jaspersiana di incomprensibilità è divenuto il luogo di discriminazione dei due principali filoni fenomenologici in psichiatria (quello descrittivo e quelloeidetico-modale-trascendentale): su di esso si sono svolti i “conflitti del conoscere”, dove l’intuiredella Fenomenologia, l’afferrare della Daseinsanalyse, l’interpretare delle varie Ermeneutiche, lospiegare delle scienze naturali, ma anche di alcune scienze umane, e lo spiegare ciò che si comprende di alcune importanti correnti psicoanalitiche, hanno finito nei fatti più per convivere che per prevalere l’uno sull’altro.

 

Riassunto

L’Autore rileva l’attualità della prospettiva fenomenologica nell’ambito sia della psicopatologia clinica sia della prassi di ogni psicoterapeuta che voglia aprirsi alla dimensione dialogica e all’incontro.La ricchezza delle implicazioni terapeutiche di questa opzione di fondo viene energicamente sottolineata.

Parole chiave:

Psicopatologia fenomenologica, analisi narrativa, contesto intersoggettivo.

Key words:

Phenomenologic  psychopathology, narrative analysis, intersubjective context.

 

Bibliografia

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