Published On: 1 Ottobre 2013Categories: Articoli, La Rivista

di G. Paolo Quattrini

Pubblicato sul numero 15 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

Si può perdersi nelle parole, dimenticando le regole del gioco.

Il problema della comprensibilità: linguaggio analogico e linguaggio digitale  
D. – Di cosa c’è bisogno per potersi capire?
R. – Intendendo per capire che chi si esprime possa essere correttamente interpretato nelle sue intenzioni coscienti da chi presta attenzione, oltre al fatto che chi si esprime voglia significare davvero qualcosa a chi ascolta, c’è bisogno poi che lo faccia con segni che hanno un significato preciso, cioè che sono convenzionalmente codificati e riconoscibili dall’altro, e connessi da regole ugualmente conosciute e rispettate: c’è bisogno insomma che usi un linguaggio digitale .
D. – Cos’è un linguaggio digitale?
R. – Digitale è quel linguaggio dove la parola ha un significato distinto, quanto più univoco possibile e codificato secondo convenzioni comuni, in modo da evitare i fraintendimenti.
D. – Che rapporto c’è fra il concetto di significato e quello di significante?
R. – Un’antica metafora diceva che l’ignorante è quello che quando gli indichi la luna ti guarda il dito. Il dito è significante, cioè fa segno, e la luna è significata, cioè è indicata. Questo in generale, ma questi due termini sono stati poi usati dal Saussure, il fondatore della linguistica moderna, in un senso particolare e riferito specificamente alle parole: qui l’elemento indicatore è il suono e l’elemento indicato è il concetto, e la parola è contemporaneamente il significante, cioè l’elemento indicatore, e il significato, cioè la rappresentazione dell’oggetto indicato, così che le due cose sono impossibili da separare .
D. – Hai detto che un linguaggio digitale deve essere codificato: in che modo?
R. – Devono essere codificate le regole con cui le parole possono o non possono connettersi fra loro, cioè insomma la sintassi: come diceva Wittgenstein, se non si seguono le regole cucinando si fa della cattiva cucina, ma se non si seguono le regole giocando a carte, si gioca un altro gioco . Anche il linguaggio digitale insomma è un mezzo di comprensione solo fino a che viene rispettata la sintassi.
D. – Che altro linguaggio c’è oltre a quello digitale?
R. – Quello analogico , che connette per analogie, dove le parole hanno significati molteplici e quindi indeterminati. Questo è il linguaggio che si presta meglio all’espressione e all’arte. Esprimersi è un fatto che riguarda più se stessi che il mondo, e d’altra parte l’intenzione dell’artista è semmai quella di con-muovere, cioè di indurre nell’interlocutore movimento, piuttosto che quella di spiegare qualcosa.
D. – Ma non bisogna essere sempre comprensibili, quando si parla o si scrive?
R. – Dipende dalle situazioni, cioè dal contesto. Per esempio Lacan si pronunciava contro la comprensibilità a vantaggio della creatività: parlando desiderava creare e avere un impatto che stimolasse la creatività degli altri, che li mettesse in grado di reagire creativamente. Non voleva che le parole finissero per essere ridotte al loro mero valore d’uso come indicatori di concetti o cose: voleva che i suoi allievi ai quali parlava poeticamente, rispondessero poeticamente.
D. – Per il fatto che la creatività è più importante della comprensibilità?
R. – Il fatto è che una cosa che ha senso in un contesto, in un altro contesto può essere completamente insensata: se tu chiedi a qualcuno dov’è l’ufficio postale e lui ti risponde creativamente mandandoti da un’altra parte, è un’assurdità perché tu non raggiungi il tuo scopo: si tratta di una risposta priva di senso in relazione al contesto. Se invece una persona a cui parli in modo digitale, per esempio in un salotto, fra amici, invece di risponderti nella stessa maniera reagisce con una battuta, può essere il modo per passare da una conversazione noiosa a un piano di comunicazione più creativo e piacevole. Nel contesto dell’insegnamento per esempio, ci si dovrà chiedere se ai fini dell’imparare una certa modalità di comunicazione funziona o non funziona, se cioè ottiene nell’allievo l’effetto desiderato oppure no.
D. – Quali modi di insegnare possono fare a meno del linguaggio digitale?
R. – Per esempio lo Zen. Una forma classica dell’insegnamento Zen è il cosiddetto Koan. Il Koan è una domanda che il maestro rivolge all’allievo e su cui l’allievo deve meditare finché non trova la risposta . Trovare una risposta significa dare forma a qualcosa di magmatico, di fluido, che c’è dentro di noi, su cui la domanda esercita una pressione. Ora, se una persona è messa in questa condizione di pressione senza poter in nessun modo trovare una risposta ragionevole e senza poter lasciar cadere la domanda, cosa pensi che succeda?
D. – Mi sembra che così venga compressa dentro un vicolo cieco.
R. – Questa è appunto la funzione del Koan. Nell’ottica dello Zen infatti la risposta alla domanda “qual è il suono di una mano sola?” non è una risposta in senso stretto, perché a una domanda del genere chiaramente non esiste nessuna risposta. In realtà l’allievo potrebbe anche rispondere al limite “buonanotte”, perché il maestro capisce quando la risposta è giusta non dalle parole che dice, ma da come le dice: l’allievo infatti, non potendo trovare una risposta logica, e non essendogli permesse vie d’uscita alla morsa della domanda, deve fare una specie di salto, e invece di produrre una formulazione piattamente denotativa si trova a creare una forma sganciata da costrizioni referenziali interpretante in modo intuitivo con un linguaggio analogico la situazione contingente e la realtà in generale.
D. – In pratica che vuol dire?
R. – Vuol dire che l’allievo supera la domanda con un atto creativo, ed esce così da quello che era un vicolo cieco sul piano esistenziale, ritrovandosi in uno stato d’animo incline al riso. La risposta giusta è quella che manifesta in definitiva una accresciuta consapevolezza intuitiva del mondo e della vita.
D. – In che senso l’allievo capisce di più la vita?
R. – Se una persona deve dare una risposta a tutti i costi, però non può darne nessuna perché una giusta non c’è, si trova in un’impasse terribile: l’unica via d’uscita è capire di più, essere più esperto e più saggio, meno incastrato fra la domanda, che ha il peso dell’autorità del maestro, e l’impossibilità di dare una risposta. E’ come se uscisse fuori con una visione più trasparente della realtà e con una adesione meno letterale all’autorità e al bisogno di dare risposte, con la consapevolezza che le cose della vita sono paradossalmente insensate e necessarie, e che ridere è il massimo della serietà.
D. – Nello Zen quindi la domanda incomprensibile ha senso, perché produce sull’allievo l’effetto desiderato.
R. – Appunto, quindi non si può affermare in senso assoluto neanche che quando si insegna bisogna sempre essere comprensibili, ma certo che se non lo si è bisogna che ci sia comunque una ragione, come nel caso dello Zen o nel caso dell’approccio lacaniano. Quando l’incomprensibilità di un insegnante non ha uno scopo preciso, allora è semplicemente un errore ed ha un effetto deleterio sugli allievi.
D. – E in che senso esprimersi è diverso da cercare di farsi capire?
R. – Se attaccando un quadro ti dai una martellata su un dito e strilli “ahi!”, strilli anche se non c’è nessuno che ti sente. Questa è un’espressione, si tratta cioè di qualcosa che si manifesta autonomamente da dentro di te, e in una forma non strettamente codificata di linguaggio: è quasi espressione pura, dato che avviene anche quando non c’è nessuno, e ha a che fare con l’alleviare una pressione interna piuttosto che con uno scambio di informazioni. Farsi capire soddisfa invece il bisogno di avere un determinato effetto su qualcuno. Per esempio una frase come “dov’è piazza del Duomo?”, è difficile dirlo se non c’è nessuno. Al massimo si può dire immaginando di chiederlo a qualcuno. La domanda è all’estremo opposto del grido di dolore, cioè in primo luogo richiede comprensione, dato che tende ad avere un preciso effetto su qualcuno: farsi dare qualcosa, un oggetto, una risposta, eccetera.
D. – Quindi esprimersi e farsi capire sono due cose che si possono considerare abbastanza separate?
R. – Almeno entro certi limiti: ci sono infatti cose che si dicono praticamente solo per farsi capire ed altre che si dicono quasi solo per esprimersi. Il linguaggio digitale, essendo in grado di informare l’interlocutore il più chiaramente possibile, è appunto lo strumento della comprensione, ed è il linguaggio della scienza, mentre il linguaggio analogico, che può benissimo rinunciare alla comprensibilità in senso stretto in favore di una più indeterminata evocatività, è quello dell’arte. Scienza e arte rappresentano nella nostra cultura i due poli fra cui si muove la comunicazione.
D. – Puoi farmi degli esempi?
R. – Qualunque descrizione matematica, biologica, fisica o chimica, è fatta in modo che il lettore sia in grado di capirla dettagliatamente. Nessuno scienziato si esprimerebbe in maniera ermetica, perché ha bisogno che chiunque possa ripetere esattamente gli stessi esperimenti e raggiungere gli stessi risultati. Nella letteratura scientifica la comprensibilità ha un’importanza fondamentale, il linguaggio scientifico tende ad essere univoco e codificato al massimo, cioè a usare dei termini che hanno un significato solo e convenzionalmente noto, in modo da evitare gli equivoci. L’arte invece tende esattamente all’effetto opposto, cioè a mettere in movimento la vita interiore, qualunque sia la direzione che possa poi prendere, e a questo scopo anche gli equivoci sono utili. Sempre in funzione del fluire psichico, nel linguaggio artistico si usano parole e immagini pregnanti, cioè che indicano certe cose specifiche e allo stesso tempo anche elementi che le trascendono: il mare, l’amore, il cuore, sono appunto parole che richiamano mille significati, troppi anche per la poesia, e infatti si tratta di quei luoghi comuni che vengono usati per fare della poesia a buon mercato.
D. – Come fanno a esistere due linguaggi separati?
R. – Freud scoprì che nello sviluppo psichico si manifestano in tempi successivi due distinti processi mentali, quello primario e quello secondario. Quello primario dà luogo al linguaggio analogico, che consiste in un afflusso di immagini che si ricordano, si alludono, si evocano, fenomeno che sembra essere permesso dalla debolezza dei legami fra le parole e i loro significati , probabilmente il solo livello di correlazione che l’Io primitivo è capace di strutturare. Lo sviluppo successivo dell’Io porterebbe invece secondo Freud a legami abbastanza forti da mantenere stabilmente connessi alle parole determinati significati e solo quelli, permettendo così un linguaggio digitale: questo è il processo secondario, che si affianca al processo primario senza però sostituirlo, data la differenza delle funzioni che svolgono e la loro importanza per quanto riguarda la sopravvivenza.
D. – Quali funzioni svolgono per la sopravvivenza?
R. – Il processo secondario è impegnato nella ciclopica impresa di riconoscere e di dare nome a tutte le cose del mondo, compito di cui è evidente l’importanza nell’ottica della sopravvivenza individuale e della specie, mentre quello primario rimane la fonte di ogni movimento fisico e psichico.
D. – Come si può immaginare che si formino, da un punto di vista biologico?
R. – Il processo primario è la parte dell’attività mentale deputata alla vita istintiva, quella cioè che condividiamo con gli animali, mentre il processo secondario non è che un’evoluzione successiva dello stesso fenomeno: non è difficile infatti immaginare come l’attività di nominazione derivi da un progressivo stilizzarsi delle reazioni istintive .
D. – Come si articolano fra loro questi due processi?
R. – Processo primario e processo secondario, cioè attività analogica e attività digitale, sono realtà incommensurabili, che si configurano quindi necessariamente come polarità, conflittuali o meno, a seconda dei casi: questa doppia attività psichica, attraverso il processo dialettico porta chiaramente una spinta propulsiva molto più differenziata di quella della semplice vita pulsionale. Sono state avanzate a questo proposito ipotesi interessanti sull’origine e lo sviluppo della coscienza.
D. – Quali ipotesi?
R. – Se da una parte l’attività analogica della mente, che funziona senza parole e senza nomi, si può far corrispondere senza difficoltà al concetto di inconscio elaborato da Freud, è improbabile invece far coincidere con la coscienza l’attività digitale, che in fondo non è che un semplice lavoro di catalogazione. Jaynes avanza l’ipotesi che sia da una specifica interazione fra queste due attività mentali che la coscienza nasce. Del resto anche lo stesso lavoro di interpretazione delle scuole freudiane, che è teso a produrre coscienza nel paziente, si svolge come se la coscienza potesse appunto comparire quando l’attività digitale converge con quella analogica, dando nome alla sua dinamicità.
D. – Non mi sembra comunque possibile che ci si possa esprimere senza proprio nessuna intenzione di farsi capire.
R. – Espressione e bisogno di farsi capire sono in effetti fenomeni che solo in teoria si possono vedere separati: d’altra parte quando leggi per esempio un testo scientifico ti rendi conto che qui l’autore tende soprattutto a farsi capire, cioè tratta in modo rigorosamente descrittivo certi argomenti, mettendosi al servizio di un lettore interessato solo a quelli.
D. – In questo caso l’espressione manca?
R. – In realtà non proprio, ma in un testo scientifico il bisogno di espressione dell’autore è generico e ridotto al minimo, e quello di farsi capire occupa lo spazio maggiore. E anche qui bisogna differenziare, perché ci sono libri scientifici ispirati da grande passione, che sono tutt’altra cosa che i testi scolastici, o per esempio i manuali d’istruzione per l’uso di macchinari.
D. – Nella poesia invece è l’interesse per la comprensione che è ridotto?
R. – Diciamo che in genere viene in secondo piano rispetto all’espressione. In realtà comunque questi due fenomeni si possono amalgamare benissimo fra di loro.
D. – Quindi dovrebbero stare insieme più di quanto a volte lo siano.
R. – La buona poesia di solito non è veramente inaccessibile, per lo meno a un certo livello di preparazione culturale, e d’altra parte scritti scientifici come per esempio quelli di Darwin sono affascinanti da leggere per chiunque: la sua passione per la conoscenza del mondo è estremamente coinvolgente.
D. – I testi aridi e le poesie astruse quindi si possono considerare poco apprezzabili?
R. – Beh, essendo stata a scuola avrai come tutti una vasta esperienza di testi aridi e saprai quanto sono sgradevoli da leggere, e anche quanto basta un linguaggio appena un po’ più coinvolto e coinvolgente per rendere l’argomento meno indigesto. Dall’altra parte, le poesie dove non si capisce proprio niente non fanno neanche nessun effetto, e apprezzarle diventa un’impresa, perché in effetti, pur non essendo l’arte qualcosa da capire ma qualcosa a cui reagire, anche per reagire c’è bisogno di livelli almeno minimali di comprensione, e quando quelli mancano apprezzarla diventa un’impresa.
D. – E allora perché ci sono artisti incomprensibili?
R. – Il fatto è che in certi casi la comprensibilità viene sacrificata a dei bisogni profondi, che non sono aride idiosincrasie, mentre invece alcuni hanno l’esigenza di apparire strani, e poi ci sono addirittura persone che se scendessero sul piano della comprensibilità non sarebbero di nessun interesse: allora coltivano un’incomprensibilità che gli dà lustro, anche se fittizio.
D. – Cosa significa quando il valore di un artista viene riconosciuto in un altro tempo?
R. – Significa evidentemente che le sue modalità espressive non erano funzionali a bisogni superficiali ma piuttosto a esigenze profonde, e che è rimasto coerente alla sua esperienza anche a costo di non essere apprezzato.
D. – La sua opera sarebbe stata impoverita se si fosse espresso in uno stile adeguato all’ambiente?
R. – Sì, perché il contenuto e la forma espressiva sono un’unità inscindibile: uno stile si sviluppa, mica si sceglie. Van Gogh per esempio ha avuto una vita piuttosto difficilina, ma anche se avesse voluto non avrebbe potuto rinunciare al suo stile per un altro più consono ai gusti del pubblico.
D. – Non avrebbe potuto in nessun modo farsi apprezzare da un pubblico più vasto?
R. – Le circostanze hanno una grande parte nel destino degli uomini, e a volte gente non apprezzata in una nazione lo è stata molto in un’altra. Van Gogh avrebbe potuto andare in altri paesi, oppure avere migliori relazioni commerciali, ma non avrebbe potuto dipingere in un’altra maniera e allo stesso tempo restare aderente alla sua esperienza interiore.
D. – Essere apprezzati è anche una questione di paese oltre che di epoca?
R. – Inevitabilmente, perché la cultura di ogni nazione è legata alla sua organizzazione politico-economica, e varia di conseguenza. Pensa a Oscar Wilde: per la sua fama fu necessario l’ambiente conservatore dei salotti vittoriani, dove lui imperava e fuori dai quali non avrebbe avuto altrettanto terreno di manovra. Caratteristica essenziale di questo ambiente era il precario equilibrio fra un estremo perbenismo e un grande fascino per tutto quello che non era ritenuto perbene, e proprio in questa società ultrapuritana e allo stesso tempo piena di malizie Oscar Wilde ha potuto diventare famoso e per venire poi abbandonato da tutti dopo essere finito in carcere. E’ un esempio di quanto sia determinante per il destino di un artista l’ambito in cui si muove: ai giorni nostri certamente non sarebbe stato messo in prigione, ma forse non avrebbe avuto lo stesso successo. E’ possibile che se Van Gogh fosse vissuto oggi avrebbe avuto fama in vita, come Picasso, e sarebbe magari anche diventato ricco, ma può anche darsi di no, perché per esempio Ligabue, pittore di pur notevole levatura, è vissuto da straccione per tutta la vita e i suoi quadri hanno cominciato a valere tanto solo negli ultimi decenni, dopo la sua morte.
D. – Si può distinguere la stravaganza gratuita di un artista da una reale esigenza di essere coerente con il proprio mondo interiore?
R. – Molto in teoria sì, ponendosi di fronte all’opera ed ascoltando le proprie sensazioni e le proprie reazioni emotive: se l’opera ha a che fare con qualcosa di esperibile, anche se molto profondo e complesso, qualche reazione la dovrebbe pur provocare in chi osserva. D’altra parte dipende evidentemente anche dalla sensibilità dello spettatore e dalla quantità di pregiudizi di cui è dotato: l’insignificanza di un’opera può dipendere in pratica sia da un fatto oggettivo che dai limiti dell’osservatore.

 

Il velo di Maya 
D. – Ma che cos’è veramente l’arte?
R. – Ci sono tante risposte possibili a questa domanda. Una potrebbe essere per esempio che è qualcosa che avvicina alla intuizione della trasparenza della realtà. Il mondo come lo vediamo è velato infatti (ma allo stesso tempo rivelato, in quanto è così che noi lo comprendiamo) dal cosiddetto velo di Maya, il velo dell’illusione, cioè dell’illusoria significatività:  è un’illusione che le cose abbiano valore in sé, come ci sembra, perché in realtà siamo noi che gli diamo senso a causa e in funzione dei nostri bisogni. La percezione del mondo è mediata dai bisogni, si capisce e si apprezza quello che si utilizza .
D. – E l’arte va al di là dei bisogni?
R. – In un certo senso: guardare con l’occhio dell’artista è vedere qualcosa che è interessante senza essere utile, almeno non nel senso stretto del termine.
D. – Questo vale anche per l’arte moderna?
R. – Non c’è differenza fra arte classica e moderna a questo proposito, dato che nelle opere d’arte l’attenzione va comunque su quello che non c’è, piuttosto che su quello che c’è.
D. – In che senso?
R. – Piuttosto che gli oggetti rappresentati, quello che c’è da guardare è fra gli oggetti, nel senso che bisogna guardare quello che il contrasto fra gli elementi dell’opera (figure, immagini, parole, note, ecc.) fa vivere, che non ci sono nomi né altro a rappresentarlo stabilmente.
D. – Mi puoi fare un esempio?
R. – Una poesia di Garcia Lorca dice :
“. . . . . . . . . . . . . . . . . .
e io che camminavo 
con la terra alla cintola 
vidi due aquile di marmo 
e una ragazza nuda. 
Una era l’altra 
e la ragazza nessuna.
Aquile, chiesi, 
dov’è la mia tomba? 
Nella mia coda, disse il sole. 
Nella mia gola, disse la luna. 
Sui rami del ciliegio 
vidi due colombi nudi, 
uno era l’altro 
e tutti e due nessuno.”
E’ evidente che il testo non è comprensibile solo attraverso una lettura metaforica o in chiave simbolica: bisogna lasciare che dai contrasti fra le immagini (le due aquile che una è l’altra e la ragazza nessuna, la coda del sole, la gola della luna, ecc.) nasca un mondo, cioè qualcosa che il lettore è in grado di percepire. Come le proiezioni olografiche, tridimensionali, che necessitano dell’incontro di due fasci di luce per essere visibili e non possono essere viste quindi da qualsiasi punto di osservazione, questi mondi che nascono dal contrasto fra le immagini possono essere visti in realtà solo se l’osservatore è disponibile, cioè se guarda dentro il contrasto, nel senso che ascolta attentamente le sensazioni che gli provoca invece di metterle da parte: in questo senso vede in definitiva quello che non c’è.
D. – Ma cosa sono queste “cose che non ci sono”?
R. – Non sono definibili per la loro essenza, ma per i loro effetti: sono infatti percepibili come impressioni, e in questo modo producono un impatto rimarchevole sull’anima umana. Le impressioni forti inducono in genere un atteggiamento creativo nell’osservatore, che reagisce appunto “fluendo”, cioè manifestando un flusso di prodotti psichici.
D. – L’arte ha quindi delle funzioni specifiche?
R. – Oltre quella di mettere la persona in uno stato d’animo creativo e di aprirgli quindi la via per la trascendenza, l’arte ha anche un ruolo fondamentale nel processo di strutturazione del Sé, come ricerca di immagini coesive della frammentazione primaria da cui l’Io si evolve, dove trasparenza e polimorfismo danno la flessibilità necessaria per fare posto nell’equilibrio quotidiano ai nuovi desideri che continuamente si manifestano: con quelle forme che significano tante cose insieme si possono con-prendere contemporaneamente molti significati e connettere in maniera multidimensionale quello che già esiste, rendendo più facile l’ardua impresa di soddisfare i propri bisogni.
D. – Anche per l’arte orientale vale lo stesso discorso?
R. – L’arte orientale non si basa sugli stessi principi, e fra l’altro è nella diversa concezione dell’arte che si evidenzia più chiaramente la differenza di tendenze fra la cultura orientale (indo-buddista) e quella occidentale (grecoromana-ebreocristiana): mentre quest’ultima infatti è orientata a moltiplicare le forme, l’altra tende piuttosto a vanificarle .
D. – Come possono incontrarsi queste due culture?
R. – Il punto d’incontro è che tutte e due tendono alla stessa cosa, cioè alla leggerezza e alla trasparenza della realtà. Le vie però sono differenti, perché mentre nella cultura occidentale risulta centrale l’azione e la creatività, in quella orientale lo è l’assenza di intervento, cioè stare con la consapevolezza lasciando che il mondo passi e vada, senza ostacolarlo. Sono due modalità molto differenti, anche se convergono nello scopo: l’importante non è riuscire a conciliarle, ma capirle e riconoscerle come possibili strumenti di interazione col mondo e adoperarle per i propri intendimenti, senza confondere il mezzo, cioè la modalità culturale, con il fine, cioè la tendenza alla liberazione dalle limitazioni del mondo materiale.

 

Il gioco  
D. – Che rapporto c’è fra l’arte e il gioco?
R. – Intanto bisogna distinguere i giochi come per esempio lo sport o le carte, cioè quelli orientati a una vittoria, dai giochi veri e propri, che consistono nel fare qualcosa per il gusto di farlo e non per uno scopo da raggiungere: più la meta, anche se simbolica, diventa importante, meno si tratta di un gioco. Una partita di calcio per esempio non è altro che uno scontro territoriale ritualizzato, cioè svolto rispettando delle regole che impediscono spargimenti di sangue e assegnano la vittoria in base alla riuscita di una determinata operazione convenuta da ambedue le parti. Nel concetto di gioco vero e proprio rientrano invece tutte le attività esplorative, e quindi anche l’arte, che notoriamente quando diventa didascalica, cioè orientata a un fine, decade di qualità.
D. – Che funzione ha il gioco?
R. – Da un punto di vista biologico serve ad allenarsi, a imparare a fare un’azione nel modo più efficiente possibile: i gesti con cui i gatti giocano con i gomitoli di lana sono gli stessi con cui poi acchiappano i topi. L’addestramento fisico comunque, almeno nell’uomo non è l’unica componente: spesso da bambini si ha un gioco preferito, e si sa che chi ha la fortuna di poterlo trasformare poi da adulto in una professione, di solito ne diventa un maestro. Questo dipende dal fatto che quella che viene esercitata giocando è anche soprattutto la significatività dell’operazione, e facilmente la persona che ama quell’attività ne diventa veramente esperta, perché la capisce profondamente ed è profondamente coinvolta nell’esercitarla. Per Winnicott il gioco è il fenomeno che sta alla base di tutta la cultura : si tratta della teoria degli oggetti transizionali di cui i giocattoli sono un esempio. Il giocattolo per il bambino è un oggetto che sta a mezzo fra il mondo interno, cioè il mondo delle rappresentazioni interne degli oggetti, immagini che si può giostrare come vuole, e quello esterno, persone e cose del mondo degli adulti, che non è ancora capace di gestire. Anche le parole sono oggetti transizionali, a mezzo fra il mondo interno e quello esterno, e le culture umane si fondano appunto sull’uso della parola, da cui la visione winnicottiana del gioco come base della cultura.
D. – In che senso gli oggetti transizionali stanno nel mezzo fra il mondo esterno e quello interno?
R. – Per esempio il bambino se è arrabbiato può fare a pezzi una bambola, cosa che non può fare con i genitori o con gli amici, ma deve farlo fisicamente, non come le immagini interne che possono essere annientare con la sola forza del desiderio: ugualmente anche le parole possono essere messe insieme e separate, usate con rispetto e disprezzate, ricordate e dimenticate, addirittura inventate, usate comunque nella maniera che si vuole senza tanti problemi, ma allo stesso tempo nel rispetto di un livello almeno minimale di realtà se si vuole condividere il gioco con qualcuno.

 

Comunicazione e psicoterapia
D. – Hai detto che l’attività analogica è quella parte della mente che condividiamo con gli animali: anche gli animali si esprimono?
R. – Un’opera poco conosciuta ma molto importante di Darwin è “l’espressione delle emozioni“: qui il padre dell’evoluzionismo avanza un’ipotesi illuminante sulla comparsa appunto già nel mondo animale di quel curioso fenomeno che è l’attività espressiva, che nell’uomo attraverso il gioco sbocca poi nel mondo della cultura. Darwin mostra infatti per esempio come il ringhiare dei cani non sia altro che una estremizzazione dell’aspetto iniziale del comportamento di attacco. All’inizio, quando il fronteggiarsi dei contendenti può risolversi nello scontro o nella fuga, la capacità di aumentare la propria minacciosità fino a indurre l’altro alla fuga è evidentemente una soluzione ottimale, perché ottiene la vittoria senza i rischi dello scontro. Si può capire quindi come l’espressione abbia avuto successo sul piano evolutivo, e anche quanta parte della vita istintiva possa esplicarsi senza danni individuali e sociali in questa attività.
D. – Allora esiste una modalità espressiva naturale, comune a uomini ed animali?
R. – Certamente: avvicinarsi velocemente, indietreggiare, mostrare i denti, farsi piccolo piccolo, gonfiare il torace e tanti altri gesti sono segni inequivocabili, almeno fra tutti i mammiferi che la differenza di taglia non rende indifferenti (nel senso che difficilmente un elefante potrebbe sentirsi minacciato dal soffiare di un gatto).
D. – Ma per quanto riguarda la soddisfazione, esprimersi non è molto diverso da agire?
R. – Sembrerebbe di no , e questo è in realtà un fatto di importanza basilare per la psicoterapia. Non tutti i desideri infatti possono essere soddisfatti sul piano dell’agire, ma qualunque emozione può invece essere espressa senza danno per l’interlocutore e senza bisogno di molta collaborazione da parte del mondo esterno: questo permette nel contesto terapeutico di portare in fondo situazioni che sono arenate da tempo immemorabile su desideri insoddisfatti, i quali ovviamente soddisfarli non si può (anche solo perché magari col passare del tempo non ci sono  più nemmeno le condizioni), ma in relazione ai quali si può invece esprimere tutta la gamma di emozioni che il dramma comporta. Trovate “le parole per dirlo”, il trauma si fa appunto dramma, e la vita ricomincia a scorrere.
D. – Allora la psicoterapia in fondo è semplicemente comunicazione?
R. – Le psicoterapie non comportamentiste sono in effetti, quale in un modo quale in un altro, dei sistemi per trasformare sintomi e malesseri in espressioni e comunicazioni, cioè in fattori che aiutano il movimento e lo sviluppo invece di costringere la persona all’eterna ripetizione.  Da una parte infatti le psicoterapie agiscono aiutando la persona ad esprimersi, dall’altra si occupano dello sviluppo delle sue capacità di gestione della comunicazione, operazione che richiede un bagaglio di conoscenze anche sul piano concettuale, e che invece spesso manca. Le conoscenze in questo campo sono infatti ultraspecialistiche, e non arrivano alla cultura di massa, che utilizza i mezzi di comunicazione come le macchine, cioè senza conoscerne il funzionamento. Ferdinand de Saussure teorizzò che una lingua è un insieme coeso, le cui parti si informano vicendevolmente di significato, e che quindi solo rispettando rigorosamente le regole della lingua stessa si può “dire” qualcosa che ha un senso. Wittgenstein poi ha dimostrato come il rispetto delle regole del gioco nella comunicazione sia il sine qua non  perché questa possa avvenire, e che non rispettare gli accordi impliciti nelle strutture linguistiche (sintassi compresa) è un fatto eticamente scorretto. Quanto truccare le comunicazioni sia un’operazione aggressiva e abbia alla lunga conseguenze nefaste appare chiaramente nella terapia della famiglia, dove si è avuto l’evidenza clinica che le comunicazioni distorte possono distruggere psichicamente una persona.
D. – In che modo?
R. – Ci sono vari comportamenti che si sono dimostrati letali nella comunicazione. Esperimenti fatti con studenti in università americane hanno per esempio messo in luce come se un gruppo di persone parla di qualcuno presente senza mai rivolgersi direttamente a lui, di solito in breve tempo questo entra in uno stato di acuta sofferenza psichica.
Altri esempi: è stato notato nelle ricerche della sistemica come un modo per mettere fuori gioco un membro della famiglia sia quello di non dare mai feed-back né positivi né negativi ai suoi interventi, di “disconfermarlo” come si dice tecnicamente.
La modalità di comunicazione basilarmente patologica è comunque quella a base di richieste contraddittorie, di richieste cioè inconciliabili implicite nella stessa comunicazione: un esempio limite sarebbe un genitore che dicesse al figlio “ubbidiscimi, diventa più autonomo!” Un figlio che dovesse assolvere tutte e due le richieste è inevitabilmente spinto a scindersi in due.
D. – Mi sembra che sia una richiesta frequente da parte dei genitori, anche se non proprio in questi termini: perché allora i figli non diventano sempre schizofrenici?
R. – Dipende da tantissimi fattori, che nell’insieme determinano il livello di pressione che le due richieste esercitano sulle persone.
D. – Allora le psicoterapie servono per imparare a difendersi dalle comunicazioni pericolose?
R. – In un certo senso è così: più genericamente si può dire che servono a differenziarsi, stabilendo i propri limiti in relazione al mondo esterno. Cioè in sostanza servono a imparare dove finisce il mondo e dove cominciamo noi, e a stabilire quel passaggio da fuori a dentro e viceversa che rende possibile il metabolismo psichico.

Cfr. P. Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento.

Cfr. F. de Saussurre, Corso di linguistica generale.

Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche.

Cfr. P. Watzlavick, Pragmatica della comunicazione umana.

Per quanto possa sembrare strano, è un’esperienza frequente in culture non europee.

Lo Zen è una scuola buddista nata in Giappone intorno al 13° secolo: un esempio di Koan è: “Qual è il suono di una mano sola?”

E’ proprio a questo che sono dovuti i giochi di parole dei bambini e i doppi sensi degli adulti.

Cfr. P. Watzlavick, Il linguaggio del cambiamento.

Cfr. J. Jaynes, Il crollo  della mente bicamerale  e l’origine  della  coscienz“; G. Colli, La sapienza dei Greci.

Termine indiano che  indica l’illusione dell’apparenza,  e che  fu introdotto nella cultura occidentale da Schopenauer.

La psicologia della Gestalt ha messo in luce come le caratteristiche della percezione ricalchino la storia dell’interazione  fra gli organismi viventi e  il loro ambiente. La capacità  di percepire (attraverso gli organi di senso) è stata una grande invenzione della natura per aumentare le probabilità di sopravvivenza, e secondo questa funzionalità si è evoluta: è evidente perché le linee scure orizzontali in basso diano un senso di stabilità (terra), e le linee chiare orizzontali in alto un senso di apertura (cielo), mentre le orizzontali scure in alto  diano un  senso di chiusura  e di  protezione (tetto). Meno evidente  è l’origine  di tanti altri  effetti visivi, ma Kandinsky ha mostrato nei suoi scritti la possibilità di un’indagine sulla significanza oggettiva, cioè comune a tutta la specie umana, delle forme astratte (Cfr. V. Kandinsky, Punto linea superficie).

Cfr. G. Lorca, Il romançero gitano.

Si tratta di un Occidente e di un Oriente mitici, che esistono piuttosto nell’immaginario che nella realtà: eppure, malgrado  l’assenza di una omogeneità che possa raccogliere tante culture diverse sotto  una  di queste bandiere, a livello di tendenza generale, di “clima” culturale, il fenomeno è riconoscibile.

Cfr. D. Winnicott, Gioco e realtà.

Esperimenti condotti sui cani a cui era stato deviato l’esofago hanno mostrato che il senso di sazietà non proviene dall’arrivo del cibo nello stomaco, ma piuttosto dall’attività di masticazione.