Published On: 5 Giugno 2013Categories: Articoli, La Rivista

di G. Paolo Quattrini

Pubblicato sul numero 16 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

Nei congressi di PTG capita non di rado che si parli di comunità gestaltica. Ma in realtà, esiste una comunità gestaltica?

Esiste cioè nel mondo un gruppo di persone che si relazionano fra loro in un modo che si potrebbe dire tipicamente gestaltico? Per tipicamente gestaltico si può intendere con comportamenti proposti da autori noti e apprezzati da psicoterapeuti della Gestalt, come Perls, o i Polster, oppure tipico per la connessione con elementi importanti del corpus di teorie riconosciute fondamentali da molti psicoterapeuti della Gestalt, come la teoria del campo di Lewin, o la relazione figura sfondo di Rubin.

Perls per esempio affermava:

Io sono io 

Tu sei tu

ecceterra.

C’è una comunità che adotti questo atteggiamento nei rapporti interpersonali?

Come si comporterebbe un gruppo umano che rispettasse davvero questa affermazione?

Il termine comunità come lo si usa normalmente sarebbe compatibile con questo, oppure c’è bisogno di un concetto più differenziato per poter indicare l’insieme dei gestaltisti?

O semplicemente, quali impliciti è indispensabile esplicitare per poter usare il termine comunità gestaltica, senza cadere in una vera e propria contraddizione in terminis?

Non mi risulta che ci sia oggi una comunità gestaltica in questo senso, e non credo nemmeno che sarebbe auspicabile, dato che i principi possono essere rigorosi, ma la loro applicazione è comunque per forza approssimativa.

La questione risulta insomma spinosa, ma la storia, come è noto, è maestra di vita: se guardiamo indietro nel tempo, vediamo come la Grecia classica consisteva in vari Stati, riuniti in una koinè culturale di cui la lingua e il culto degli stessi Dei erano i punti salienti. Nessuno nella Grecia antica pare abbia sentito la necessità di una comunità più omogenea, o nessuno l’ha lasciato scritto, e i greci non si amavano, erano eternamente in guerra, ma si capivano. La koinè permetteva scambi e passaggi culturali malgrado le guerre, malgrado l’inimicizia fra gli Stati e le persone: era una koinè di amici e nemici, di conosciuti e sconosciuti.

La koinè non costituiva legame: costituiva invece possibilità, al momento che gli individui volevano scambiare.

A differenza della koinè greca, la comunità ha soprattutto un senso difensivo: se non ci sono nemici non c’è bisogno di comunità, l’umanità intera è una comunità. L’etologia dimostra come l’alleanza sia riorientamento dell’aggressività: invece di combattere fra loro, due individui fanno fronte comune contro un nemico.

Se la koinè culturale offre possibilità, la comunità, essendo un fatto difensivo congruo a gruppi di perseguitati o di privilegiati, esige nemici. E chi sarebbero oggi i nemici della comunità gestaltica? Inimicizia implica pressione, e chi fa pressione sopra l’ottica gestaltica? Non c’è più l’inquisizione e nessuno, a meno che non sia stupidamente integralista, si pone come padrone della verità, quindi pressioni in questo senso non ce ne sono, e la Gestalt esiste sul libero mercato delle idee e delle pratiche psicoterapeutiche come tutte le altre scuole, affidata alla sua capacità di fare presa sul pubblico, e senza bisogno di doversi difendere.

Inoltre pensare in termini di comunità gestaltica comporta un’alleanza con persone che solo perché usano gli stessi concetti non sono necessariamente più alleate di altre che non li usano, né al limite più comprensibili, dato che spesso si appoggiano su epistemologie diversissime e intendono con le stesse parole contenuti diversissimi, ma non esplicitamente differenziati.

Una koinè culturale invece è un contenitore importante: risulta complicato per esempio rispiegare il proprio background di pensiero ogni volta che si voglia parlare di qualsiasi concetto specifico dell’approccio gestaltico, e una solida koinè aiuterebbe in scambi e verifiche che in molti è più facile fare efficacemente.

Ma una koinè del genere richiede un linguaggio differenziato, che metta in luce convergenze e divergenze, e che, al limite, permetta di vedere come quello che a qualcuno sembra importante ad altri sembri irrilevante o addirittura un errore. La koinè esige differenziazione: solo perché spartani e ateniesi potevano dar vita con la stessa lingua e gli stessi Dei a mondi diversissimi, potevano parlare la stessa lingua e adorare gli stessi Dei, altrimenti avrebbero dovuto evolvere lingue e religioni diverse.

Una koinè permette lo sviluppo di concetti, di considerazioni e di esperienze a una rapidità molto maggiore: permette l’apertura di un mondo nuovo, in cui le persone possano allargarsi e dispiegare le loro ali in voli liberi dalle gabbie delle ristrettezza mentali e comportamentali.

La comunità comporta un interesse meschino alle fonti, a chi ha detto cosa, e cosa intendeva dicendolo, a chi è gestaltista e a come si fa ad essere gestaltista. La comunità difende la sua identità, scordandosi che identità è sinonimo di nazionalismo, e che il nazionalismo è il padre dell’imperialismo, politico o culturale che sia.

In questa ottica molti gestaltisti di oggi si interessano al tema del Self, che è sinonimo di identità e preculsore appunto di imperialismo culturale, cosa a cui sembra spesso difficile resistere. Questi gestaltisti vogliono sapere chi sono, e, possibilmente, come sono meglio degli altri psicoterapeuti.

Ma gestaltista significa semplicemente che la persona sta in un’ottica gestaltica, cioè olistica, perché Gestalt significa insieme, nel senso in cui la matematica insiemistica intende questo termine.

Un gestaltista è semplicemente una persona che vive guardando il mondo da un punto di vista olistico, che faccia lo psicoterapeuta o il dentista o il posteggiatore. Cosa vede guardando da questo punto di vista non è tipico né tantomeno omogeneo, e quello che sarebbe interessante sarebbe appunto sapere cosa percepisce guardando agli insiemi che si formano e si disfano continuamente.

Come dice Popper, ogni essere umano è un universo, unico e insostituibile, e quando muore, questo universo muore con lui. C’è la possibilità di conoscerlo solo finchè è vivo, e bisogna approfittare dell’occasione: gli incontri fra gestaltisti dovrebbero ragionevolmente essere occasioni di scambio di queste visioni, invece di vuote chiacchiere sulla storia e sulle sorti della Gestalt nel mondo.

Alimentare la koinè sarebbe sapere come in concreto uno psicoterapeuta rispetta il paziente che è chiuso come un’ostrica, riuscendo allo stesso tempo ad avere una certa effettività: lo psicoterapeuta è infatti un professionista vincolato all’effettività, viene pagato per svolgere un lavoro che deve essere effettivo, oppure si tratta di una truffa.

Sarebbe anche interessante sapere qual è il punto in cui uno psicoterapeuta si arrende e si dichiara incapace di lavorare con una persona, e come lo dice rispettando la dignità del paziente e allo stesso tempo la propria.

All’alimentazione dell’idea di comunità gestalticacontribuisce il concordare su temi resi inutilizzabili dalla loro genericità, come il rispetto del paziente, o la pace nel mondo, mentre alimenterebbe la koinè ascoltare come gli psicoterapeuti portano la pace all’interno dei conflitti di interesse fra gli esseri umani nei piccoli gruppi, perché lì nasce una via di pace per i grandi gruppi, e di fatto le difficoltà vere e proprie non sono le incomprensioni, ma gli interessi diversi che non fanno confliggere solo paesi o classi sociali, ma in primo luogo persone che sono legate da affetto, come spesso i membri di una famiglia.

Ma come si aiuta alla conciliazione un figlio che vuole la libertà e una madre che vuole sicurezza? Non ci sono strade ortodosse e neanche sentieri oggettivi, ci sono solo tantissime esperienze da cui ognuno avrebbe da imparare se fossero offerte all’ascolto al posto di quelle genericità che alimentano il narcisismo gestaltista sotto i buoni uffici del pensiero comunitario.

Una koinè gestaltica dovrebbe condividere lingua e spiritualità della Gestalt, come all’occasione il coraggio di manifestare la propria esperienza anche quando dispiace all’interlocutore, il coraggio di non stare al mondo per soddisfare i bisogni dell’interlocutore, quello di non credere di avere ragione quando si dissente dall’interlocutore, continuando però a onorare il proprio pensiero e la propria esperienza, e soprattutto la pratica di mettersi continuamente nei panni dell’interlocutore per poter essere davvero se stesso e l’altro nello stesso momento, pratica senza la quale affermare che facciamo parte dello stesso mondo è pura ideologia pseudoumanitaria, peggiore alla fine di una aperta cecità egoistica.

Come ognuno onora tutto questo sarebbe un mistero a cui accostarsi con curiosità, sempre che si potesse essere ammessi ai culti che gli altri gestaltisti praticano.

Aiuterebbe l’esistenza di una koinè gestaltica una ritualità di presentazione della problematica, e anche di ascolto, cosa che non può essere semplicemente affidata alla cortesia di ciascuno: e servirebbe una ritualità che supporti in ogni momento il difficile equilibrio fra il rispetto del paziente e l’efficacia dell’intervento, e la difficilissima consapevolezza della connessione della pratica a una sua teoria, tenuta comunque sempre sullo sfondo, per non congelare il flusso dell’esperienza del rapporto.

Sviluppare queste ritualità sarebbe supportare una vera cultura gestaltica, una koinè da cui ognuno avrebbe da guadagnare partecipando: se poi da questo seguono rapporti di amicizia e di stima benissimo, ma può restare invece una lontananza personale che è del tutto secondaria allo scambio di esperienze. Gli sconosciuti fanno parte del campo come i conosciuti, i nemici come gli amici: gli sconosciuti in particolare rappresentano le potenzialità relazionali che, rimanendo in potenza, producono una nube di alterità intorno alla realtà in atto che la ammorbidisce, togliendola dalla durezza della determinazione: ciò che è può in ogni momento smettere di essere e diventare qualcos’altro, e in questo modo e solo in questo modo, “il futuro è aperto”, come sostengono Lorenz e Popper.