Published On: 3 Ottobre 2011Categories: Gestalt Blog

Anna Rita Ravenna (Didatta-supervisore, Consulente Didattico – Istituto Gestalt Firenze – sede di Roma)

“Informazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia”, n° 1, gennaio – febbraio 2003, pagg.92-96 , Roma

Pubblicato il 3 ottobre 2011

 

Sommario

Presso l’Istituto Gestalt Firenze la formazione in Psicoterapia è considerata un continuum: dal momento in cui l’allievo sceglie l’indirizzo e la specifica Scuola, sino al diploma di specializzazione ed oltre.

Il programma teorico, l’addestramento pratico e la psicoterapia personale acquistano valore in quanto momenti d’incontro con i didatti che accompagnano la persona in un ‘percorso di iniziazione’ attraverso la loro presenza ed il loro esistere in relazione con l’allievo.

Da tempo, in ambito psicoterapeutico, gli addetti ai lavori si interrogano su quali caratteristiche siano necessarie e sufficienti per un buon training di formazione in psicoterapia.

Tralasciando le caratteristiche collegate agli aspetti specifici di ciascun approccio, il dibattito si è andato centrando sulla necessità o meno che gli allievi effettuino un percorso di psicoterapia personale. Poche sono le Scuole che non lo richiedono e, credo, tutte ad orientamento sistemico relazionale.

La prospettiva che voglio proporvi tende ad andare oltre questo interrogativo.

Il programma di specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dell’Istituto Gestalt Firenze, infatti, è impostato e svolto intendendo l’intero processo di formazione alla pratica psicoterapeutica come un ‘percorso di iniziazione’.

Due interrogativi apparentemente simili e profondamente differenti aiutano ad entrare nel tema.

Chi è lo psicoterapeuta? Che cosa è la psicoterapia?

Ognuno di questi interrogativi richiede una diversa modalità di risposta, la prima narrativa, evocativa con l’uso di un linguaggio analogico, la seconda descrittiva, esplicativa con l’uso del un linguaggio digitale. Questi due diversi linguaggi ci rinviano a due diversi approcci: l’approccio epistemologico e l’approccio fenomenologico, la prospettiva esterna e la prospettiva interna ‘all’orizzonte degli eventi’.

Confondendo i due linguaggi, i componenti delle diverse Commissioni avvicendatesi al Ministero dell’Università dal 1988, si sono a lungo interrogati su ‘cosa siano’ gli psicoterapeuti, su quali funzioni debbano svolgere, su quali competenze debbano avere per svolgere queste funzioni e su cosa bisogna insegnare loro perché acquisiscano queste competenze. Si sono anche indaffarati a stabilire conoscenze teoriche essenziali per la professione, senza dimenticare l’importanza dell’addestramento pratico.

Tutte le Scuole di formazione si sono inoltre preoccupate di fondare la professionalità su principi deontologici ampiamente condivisi nell’ambito delle professioni d’aiuto, in particolare in ambito sanitario. Tutto questo lavoro ha permesso la costruzione di modelli teorici di formazione con una buona coerenza interna e quindi con un loro valore epistemologico.

Ma come si acquisisce conoscenza in un’ottica fenomenologica così essenziale ad una formazione in Psicoterapia della Gestalt?

Secondo l’approccio fenomenologico la conoscenza è soggettiva, basata sul sentire individuale e, quindi, sulla specificità di ogni sentire e sulla capacità umana, e non solo umana, di trasformare il sentire in esperienza, in apprendimento, in conoscenza.

Il sapere teorico è un oggetto e in quanto tale può venire trasmesso dal docente all’allievo, a volte con vecchie modalità, considerando gli allievi dei vasi vuoti da riempire, a volte con nuove modalità, lezioni interattive e role playing. Il sapere teorico ha una sua possibilità di verifica basata sulla logica formale e la sperimentazione.

Come può costruirsi invece un processo di formazione a partire dal sentire personale?

Il sentire non è verificabile, non è giusto o sbagliato, è semplicemente personale.

Come l’allievo può imparare a riconoscerlo, ad esprimerlo e ad affidarsi a ciò che sente?

Nell’approccio fenomenologico, l’attuazione dell’antico imperativo delfico ‘conosci te stesso’, non richiede un altro di fronte a te che, interpretando, ti racconti la tua storia, ma un contesto affettivo che consenta di sperimentare l’ampliamento della coscienza fenomenologica, della capacità, cioè, di sostenere il vissuto relato all’esperienza di ‘essere la persona che si è’.

La relazione affettivamente connotata costituisce dunque lo spazio-tempo, il campo di forze all’interno del quale è possibile esprimere, rendere trasparenti, cioè visibili, i contenuti del mondo interno e le sue peculiarità, uno spazio-tempo in cui è possibile aprirsi al nuovo che nasce dall’interazione, dalla trascendenza di due particolari.

Nell’ottica fenomenologica i due particolari, nel nostro caso didatta e allievo, sono sempre due soggetti posti l’uno di fronte all’altro in un processo di co-costruzione degli eventi, di co-costruzione di quell’evento che chiamiamo formazione in psicoterapia nella quale non è possibile conoscere ‘al posto’ dell’allievo, non è possibile ‘travasargli’ la conoscenza del maestro, non è etico sottrargli la responsabilità del suo processo di conoscenza.

In questo modello formativo è possibile, anzi necessario, essere accanto ‘punteggiando’ e ‘sostenendo’ con la ‘presenza’ passaggi significativi di un processo tendente a dare maggior spazio al vissuto sensoriale ed affettivo-emotivo, alle funzioni dell’emisfero cerebrale destro, integrandoli nel fluire dell’esistenza, personale e professionale, tra le due sponde del sapere teorico/scientifico e del sapere esperienziale/fenomenologico.

Quale è il significato delle parole ‘punteggiare’, ‘sostenere’, ‘presenza’?

Innanzitutto voglio sottolineare ancora che il processo di formazione secondo il modello dell’Istituto Gestalt Firenze non si fonda sull’acquisizione di conoscenze teoriche, ma su quel processo trasformativo (iniziazione) le cui peculiarità sono state intenzionalmente ricercate dalla persona ed intenzionalmente e costantemente perseguite lungo tutti gli anni del training, non solo nei momenti di didattica formale.

Ormai agli inizi del secolo scorso, gli psicologi della Gestalt ci hanno dimostrato che fondamento di ogni esperienza degli esseri viventi è la percezione organizzata intenzionalmente a partire dai bisogni che l’organismo pone in figura.

Che relazione esiste tra questa affermazione ed il nostro tema?

In una persona in formazione la scelta professionale è pervasiva e, soprattutto nei primi tempi, impronta di sé, dà una nuova focalizzazione quasi ad ogni evento della vita quotidiana. Nel tempo la dinamica figura/sfondo diviene più fluida, ma la presenza di questa scelta, anche solo nello sfondo, orienta in maniera significativa il modo di stare al mondo e quindi i processi percettivi attraverso i quali  ognuno costruisce la propria esperienza di esso.

Tutto questo per sottolineare che il processo di formazione/trasformazione non ha soluzione di continuità.

Anche se si svolge nel mondo, e non nel chiuso di un tempio o di un monastero ai quali la parola ‘iniziazione’ mi fa pensare, è un processo che informa di sé l’intera esistenza della persona.

Nei momenti espressamente dedicati, è la relazione che si stabilisce tra didatta ed allievo che ‘punteggia’ questo continuo processo trasformativo. Ed è la differenza tra i due soggetti coinvolti nella relazione che rende possibile l’esistenza di quello che in Gestalt si chiama ‘vuoto fertile’.

Ma cos’è che rende ‘fertile’ il vuoto?

Chiamiamo vuoto la distanza tra i due soggetti, una distanza resa abitabile dalla empatia, dalla capacità, cioè, di essere in contatto con il sentire dell’altro ed al tempo stesso con il proprio sentire, senza confondere queste due esperienze interne.

Solo se il didatta è in grado di stabilire e mantenere una relazione empatica il rapporto interpersonale si connota come rapporto tra soggetto e soggetto fondato sul ‘sentire’ e permette all’allievo ‘di’ e lo sostiene ‘nello’ sperimentarsi emotivamente.

L’importanza di sperimentare il proprio mondo emotivo nasce dal fatto che non è frequente avere relazioni così connotate fuori del setting di apprendimento e questa competenza umana, così evidente nei bambini, è stata presto dimenticata ed ha bisogno di essere riappresa.

Il sostegno è inoltre necessario in quanto porsi come soggetto in una relazione emotivamente connotata significa prendersi la responsabilità di esplorare ed entrare in contatto con sé stessi e con l’altro attraverso parti di sé intime e vulnerabili attraversando territori che le esperienze sin qui vissute hanno dimostrato densi di pericoli e minacce. Occorre avere una gran fiducia in sé stessi e nella capacità dell’altro di cogliere il senso esistenziale del sentire rispettandone la eventuale/probabile/sicura differenza. E’ proprio la differenza infatti che fa ponte tra le due persone creando la tensione che rende fertile il vuoto, che rende il ‘contatto nella distanza’ uno spazio creativo nel quale la persona non deve abbandonare ciò che le appartiene (sbagliato/falso) per acquisire ciò che appartiene all’altro (giusto/vero), uno spazio nel quale insieme si creano nuove realtà che entrambe le persone integrano all’interno della propria esistenza incarnata e che, per ciascuno dei due organismi, rappresentano verità in quanto costruzioni alle quali l’organismo stesso ha partecipato.

Perché questo processo si dia occorre che il didatta abbia scelto lui stesso per sé, per la sua vita e non solo per la sua professione, una reale impostazione fenomenologica che gli consenta, tra l’altro, di essere trasparente a sé stesso. Trasparente non nel senso di invisibile all’altro (come lo schermo bianco di freudiana memoria) piuttosto in grado di leggere il suo mondo interno in termini di emozioni e sensazioni, in grado di attraversare e riattraversare territori minacciosi o perché oggi non gli appaiono più tali o perché sa affidarsi alla saggezza del suo organismo.

Ma non basta. Occorre che il terapeuta abbia sviluppato, insieme ad uno stile personale, il piacere della sua professione, il desiderio di restare dentro l’esperienza propria e dell’altro come in un’avventura in cui, non solo non è lecito mettere in dubbio il valore della diversità del sentire dell’altro, ma è proprio questa diversità che attrae in una continua spirale di ‘sentire, immaginare, desiderare, attuare, sentire’, in contatto con il continuo espandersi delle emozioni sino all’acme e potendo così iniziare l’altro al mistero del ciclo del contatto.

In questa professione è solo il piacere che può far diventare l’altro interessante, persona dopo persona, anno dopo anno. Infatti, i contenuti, i problemi che i clienti portano sono più o meno sempre gli stessi, mentre sempre diversi sono i modi di affrontarli, ed a volte risolverli esprimendo le parti più intime e vulnerabili del proprio mondo interno.

Aver fiducia e affidarsi è possibile solo in un contesto che esprima benevolenza e amore. ‘Si ama le persone che, miracolosamente per misteriose ragioni, ci vogliono bene e da questi si impara a trascendere il dolore e la paura che la vita comporta.’ (Paolo Quattrini).

 

Bibliografia

Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976

Naranjo C., Teoria della tecnica gestaltica, Melusina, Roma, 1989

Naranjo C., Atteggiamento e prassi in Gestalt, Melusina, Roma, 1989

Perls F., Hefferline R., Goodman P., La terapia della Gestalt. Eccitamento ed accrescimento nella personalità umana, Astrolabio, Roma, 1971

Perls F., L’Io, la fame e l’aggressività, Franco Angeli, Milano,  1995

Quattrini G.P., Istituto Gestalt Firenze, (Dispense ad uso interno)

Rovatti P. A., Abitare la distanza, Feltrinelli, Milano, 1994