Published On: 15 Ottobre 2013Categories: Articoli, La Rivista

di Gabriele Perrotti

Pubblicato sul numero 12 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.

 

Furono i romantici a fornire una nuova concezione dell’arte, non più imitazionedella natura e quindi subordinata alla realtà, a ciò che già è, ma creazione e quindi qualcosa che aveva a che fare con la conoscenza e la verità. Il grande poeta tedesco Friedrich Hölderlin riteneva che la filosofia nascesse dalla poesia, perché solo la bellezza mette l’uomo in relazione con il divino. Per Friedrich Schlegel l’artista, genio dell’arbitrio assoluto, è il mediatore per eccellenza, colui che avverte il divino in sé e si sacrifica e si annienta per annunciare questo divino. Infine l’idealismo magico di Novalis, per il quale l’artista è un mago suscitatore di mondi e negatore della realtà. Anche i filosofi del tempo non mancarono di attribuire all’arte un posto di rilievo nel loro sistema e, quindi, a riconoscere ad essa un rapporto privilegiato con la conoscenza, con la verità. In Hegel l’arte è il primo momento, quello soggettivo, della dialettica dello Spirito Assoluto, per Schelling la poesia e in generale l’arte sono forme di conoscenza che permettono di cogliere quell’identità di soggettivo ed oggettivo, di conscio ed inconscio, di libertà e necessità in cui consiste l’Assoluto. Il genio artistico partecipa all’attività creatrice di Dio. D’allora il problema del rapporto tra arte e verità non ha cessato d’impegnare non soltanto la riflessione filosofica, ma la grande letteratura europea. A parte l’opera di Goethe, coeva allo spirito della cultura romantica, basti pensare a quella di Flaubert e Proust per la Francia, di Tolstoij e Dostoevskij per la Russia, di Mann e Musil per i paesi di lingua tedesca, di Italo Svevo per l’Italia. È forse un caso che l’opera di questi autori ha rappresentato un punto di riferimento essenziale per tanti filosofi del secolo scorso? Svolgerò il tema di questa relazione con riferimento a tre modi differenti in cui è stato visto il rapporto tra arte e conoscenza, senza pretendere, tuttavia, di essere esaustivo. Il primo si pone, per certi aspetti, in continuità con la tradizione idealistica, cui si è fatto riferimento, il secondo indaga il fenomeno estetico come possibilità di potenziamento dell’attività percettiva dell’uomo, il terzo considera l’arte come attività, nella quale si realizza una intensificazione estrema della vita intellettuale di un individuo, il quale in un tempo limitato, ma privilegiato, brucia tutte le sue possibilità, a discapito delle altre, accettando il dolore e anche la morte, che possono derivare da questa scelta.

Arte e verità, dunque conoscenza. Ma qual è la forma di conoscenza propria dell’arte? Sembra si possa affermare che l’arte abbia a che fare con un tempo privilegiato dell’esistenza o della storia e, dunque, con la conoscenza che da questo tempo germoglia. Un autore, oggi a mio parere ingiustamente dimenticato, Benedetto Croce, riteneva che l’arte fosse il momento individuale della vita unitaria dello Spirito, intuizione, dunque conoscenza di ciò che si presenta nella sua irriducibile individualità. Lasciamo stare l’artificiosa distinzione della vita unitaria dello Spirito nelle quattro famose categorie arte-filosofia, per la sfera teoretica, ed economia-etica, per la sfera pratica, ciò che mi sembra rilevante per il nostro discorso è che la storia, perenne processo di auto-creazione, si dà a conoscere originariamente nell’arte. La conoscenza storica non è scienza, come Croce aveva pensato in un primo momento, ma è in primo luogo conoscenza dell’individuale e, quindi rientra sotto il concetto generale dell’arte. La filosofia, come conoscenza del generale, interviene dopo mediante una sistemazione concettuale di ciò che già è stato appreso sotto forma artistica. Egli così scrive, interpretando il pensiero di Giambattista Vico:

 

  La poesia è tanto poco superflua ed eliminabile che, senza di essa, non sorge il pensiero: è la prima operazione della mente umana. L’uomo, prima di essere in grado di formare universali, forma fantasmi; prima di riflettere con mente pura, avverte con animo perturbato e commosso; prima di articolare, canta; prima di parlare in prosa, parla in verso; prima di adoperare termini tecnici, metaforeggia, e il suo parlare per metafore è tanto proprio quanto quello che si dice «proprio».[1].

 

In altri termini, i primi poeti dell’umanità furono gli uomini che abitarono le selve, i popoli barbari.

La conoscenza artistica, dunque, è conoscenza originaria, più originaria delle altre forme di conoscenza. Questa idea, con un lieve scarto di significato, la ritroviamo in un altro autore contemporaneo, in Henri Bergson. Se per Croce l’arte è conoscenza originaria, per quest’ultimo essa è il recupero di originarie possibilità conoscitive, che l’uomo ha perso quando per ragioni pratiche, relative all’esigenza di un suo sicuro orientamento nel mondo, egli è passato dalla diretta e mobileintuizione delle cose, che perennemente si trasformano, alla loro solidificazione in schemi concettuali. In una famosa conferenza, tenuta a Oxford nel 1911, intitolataLa percezione del mutamento, Bergson sostiene, come ovvio, che se la percezione umana non avesse limiti, non sarebbe necessario il ricorso alla concezione, cioè al pensiero organizzato mediante concetti. I primi pensatori greci li ignorarono fino a quando, sperimentando i limiti della percezione, vi fecero ricorso. Cosa si guadagnò e cosa si perse in questo passaggio? Il concetto, certo, mantiene stabiledavanti a noi l’oggetto, cogliendone nella definizione i tratti essenziali, lo sottrae per certi aspetti al tempo, ce ne dà una visione ideale, indifferente ai mutamenti che i singoli individui subiscono nel corso della loro vita: un uomo è sempre un essere razionale, nonostante si trasformi continuamente dalla nascita alla morte. La prestazione del pensiero concettuale è formidabile. Il suo ausilio ci permette di ordinare il mondo, di stabilizzarne l’inarrestabile divenire, gettando su di esso una sorta di rete, le cui maglie descrivono intere regioni dell’essere, all’interno delle quali la sorte degli individui è indifferente. Bergson, d’altronde, non nega affatto i grandi vantaggi che derivano all’uomo dall’uso intelligente del pensiero concettuale, senza di esso la capacità di agire nel mondo dell’uomo sarebbe gravemente menomata; tuttavia, egli ritiene che, in questo possesso sicuro del mondo, si venga a perdere qualcosa di altrettanto essenziale. Due cose fondamentalmente: la conoscenza della cosa sub specie durationis e ciò che possiamo definire il dettaglio di quanto si offra alla percezione. Per quanto riguarda la prima, essa risulta abbastanza evidente: se il concetto fissa qualcosa in una definizione, l’unica conoscenza che è in grado di fornire è quella sub specie eternitatis. La metafisica che, tuttavia, Bergson intende inaugurare mira proprio a sovvertire il rapporto tradizionale tra essere e divenire: non si tratta più di raccogliere il secondo nelle strutture permanenti del primo, quanto di cogliere l’essere nel divenire stesso. Sulla seconda cosa essenziale, che si perderebbe nel pensiero concettuale, per ora basti osservare che proprio dall’esigenza di un recupero di ciò che sfugge a quest’ultimo nasce la proposta, formulata da Bergson, di assegnare alla futura metafisica il compito di approfondire, non la direzione delconcepire, seguita fino ad ora dalla filosofia, ma quella del tutto diversa delpercepire.

In questa proposta colpisce il dare per scontato di Bergson che un allargamento della percezione sia possibile. Quali sono le ragioni che possano indurci a ritenere che i limiti del nostro percepire siano estensibili? Basta osservare a ciò che fanno gli artisti, risponde il filosofo francese. Nell’attività artistica alcune persone particolarmente dotate ci svelano cose o dettagli di cose, le quali, pur essendo sotto i nostri occhi, noi non vediamo, oppure svelano ciò che soltanto risuona in un linguaggio e che noi non siamo in grado di tradurre in parole o in note musicali. In cosa consiste il particolare talento di queste persone, degli artisti appunto? Una prima condizione di esso ha un carattere negativo: la distrazione. Gli artisti sono distratti, nel senso che sono astratti dalla realtà, ma nello stesso tempo si sonoritratti e concentrati in una dimensione particolare del sentire; questa è la seconda condizione, stavolta positiva. Sembra un paradosso. Come possono essi conosceredi più della realtà, svelarne i dettagli più riposti, se ne sono distaccati, anzi proprio perché lo sono? La ragione sta nel fatto che la percezione «normale» (l’aggettivo è precisamente quello usato da Bergson), quella dell’uomo comune che non ha sensibilità artistica, ritaglia, nel vasto spettacolo del mondo, solo ed esclusivamente quelle immagini che sono utili ad orientare l’azione nel presente. Essa, dunque, illumina ed occulta nello stesso tempo. Ci fornisce, certamente, la conoscenza necessaria alla sopravvivenza umana, ma c’impedisce di guardare alle cose per se stesse, indipendentemente dalla loro utilizzabilità immediata. La vita attiva, egli scrive, è «uno sforzo costante della mente per limitare il suo orizzonte, per distogliersi da ciò che essa ha un interesse materiale a non vedere»[2]. La distrazione, propria dell’artista, è presa di distanza dall’azione, dalla vita attiva, dalla realtà, che non è tutta la realtà, ma quella che la percezione, mirante esclusivamente all’utile, ritaglia nel più vasto mondo. Ecco perché questa condizione negativa apre alla possibilità di un allargamento dell’orizzonte percettivo, ad una conoscenza virtuale, i cui limiti non sono preliminarmente definibili, alla vita come processo creativo di imprevedibili novità. La natura «per distrazione», «per un caso felice», scrive Bergson, dimentica di connettere in quelle persone privilegiate «la loro facoltà di percepire alla loro facoltà di agire»[3]e, a seconda del senso coinvolto, crea il talento del poeta, del pittore, del musicista. L’artista è tanto più capace di cogliere aspetti inusitati del mondo, quanto più disinteressato ad orientarsi utilmente in esso. In sintesi, l’artista vede o ode di più, perché il suo modo di percepire si allontana dagli schemi intellettuali, mediante i quali la percezione «comune» seleziona nel vasto mondo, in funzione dell’esigenze dell’agire, e pensa piuttosto per immagini. In quel di più egli riesce a recuperare ciò che nel concetto abbiamo visto perdersi: la cosa nei suoi dettagli e nel movimento della sua durata. Ad esempio, per un uomo «comune» una casa, vista in diverse ore del giorno, è sempre la stessa casa, perché egli immediatamente inserisce la cosa nel concetto relativo, il concetto-casa; per un pittore, invece, a seconda dell’intensità della luce del sole, del gioco mutevole delle ombre, per ogni ora del giorno la casa rappresenta il soggetto di un dipinto diverso, essa non è mai la stessa, nel senso che, ciò che per il primo è un dettaglio, per lui lo stesso dettaglio muta la visione dell’insieme. Successivamente le indagini sulla natura dell’esperienza estetica, quelle per esempio di Maurice Merleau-Ponty e di Erwin Straus, consistono sostanzialmente in una approfondita analisi fenomenologica della percezione.

Dunque, per Croce l’arte è conoscenza originaria dell’individuale irripetibile, per Bergson recupero di originarie possibilità conoscitive. C’è, tuttavia, una terza configurazione del rapporto tra arte e conoscenza, che è possibile ricavare dall’interpretazione dell’annuncio nietzschiano «Dio è morto!». L’annuncio è dato nel paragrafo 125, libro terzo, de La gaia scienza (1882), ove si racconta di un uomo folle che, accesa una lampada, benché nel cielo splendesse la chiara luce del mattino, corse al mercato e lì cominciò a gridare: «Cerco Dio! Cerco Dio!»; ma, trovandosi là uomini increduli, questi cominciarono a farsi beffe di lui e gli domandavano ridendo:

 

   «”È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?”- gridavano e ridevano in una gran confusione». Al che il folle balzò in mezzo a loro e gridò: «Dove se n’è andato Dio? Ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in aventi, da tutti i lati? Esiste ancora un alto ed un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?».[4]

 

Nel brano che abbiamo letto è espresso con grande efficacia come la morte di Dio getta l’uomo nel più totale disorientamento, ma in un quinto libro, aggiunto pochi anni dopo (1886) ad una nuova edizione dell’opera, dal titolo Noi senza paura, Nietzsche mette in evidenza un effetto del tutto opposto di questo grande evento, di cui l’uomo non ancora è in grado di rendersi conto.

 

   Siamo ancora troppo soggetti alle più immediate conseguenze di questo avvenimento: e queste più immediate conseguenze, le sue conseguenze per noi, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, non sono per nulla tristi e rabbuianti, ma piuttosto come un nuovo genere, difficile a descriversi, di luce di felicità, di ristoro, di rasserenamento, di rincoramento, d’autora…In realtà, noi filosofi e “spiriti liberi”, alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, d’attesa, – finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, – finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro ad ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinnanzi, forse non vi è mai stato un mare così «aperto»[5].

 

Heidegger ha ben individuato la doppia valenza di questo evento, annunciato da Nietzsche. La morte di Dio è in sostanza il compimento della metafisica, che ebbe inizio con la filosofia di Platone, la crisi i tutti i valori di cui la tradizione culturale dell’Occidente si è fatta portatrice[6]. Questa crisi ha un solo nome: nichilismo. Ma a quale orizzonte, a quale liberazione e luce può aprire il nichilismo? La risposta a questa domanda la troviamo nella monumentale opera postuma di Nietzsche, La volontà di potenza. A tutti i valori della tradizione culturale occidentale Nietzsche ne sostituisce uno soltanto. Al paragrafo 713 dell’opera egli scrive: «Valore è la massima quantità di potenza che l’uomo possa incorporarsi: l’uomo, nonl’umanità!»[7]. Il nichilismo, allora, non è soltanto negazione e disorientamento, ma addirittura un ideale: l’ideale della vita individuale potenziata al massimo. Libero da ogni norma data, da ogni vincolo di solidarietà, l’individuo si destina alla propria auto-affermazione, alla propria auto-creazione. Ora, e qui veniamo al punto, la forma di questo processo auto-affermativo e auto-creativo è, per Nietzsche, quella artistica. Nel paragrafo 853 (2) della stessa opera, egli scrive:

 

   «L’arte e nient’altro che l’arte! È quella che più rende possibile la vita, la grande seduttrice alla vita, il grande stimolante della vita (…) L’arte come la redenzione di chi sa – di colui che vede il carattere terribile ed enigmatico dell’esistenza, di chi vuole vederlo, di chi conosce tragicamente (..) L’arte come redenzione del sofferente – la via verso condizioni in cui la sofferenza viene voluta, trasfigurata, divinizzata, in cui la sofferenza è una forma del grande rapimento»[8] 

 

A me pare che in questa visione nietzschiana dell’arte, come conoscenza di un inizio assoluto nel quale l’individuo, superando il disorientamento conseguente alla negazione di ogni norma, valore e criterio prestabiliti, si auto-afferma e si auto- crea, mostri dell’arte un carattere che potremmo chiamare diabolico, se prendiamo questo termine nel senso del porsi separatamentedifferentemente. Non è un caso che Thomas Mann abbia assegnato questo carattere al personaggio, la cui storia è ispirata ad una leggenda sulla vita di Nietzsche[9]. Il protagonista del romanzo dal titolo Doctor Faustus, Adrian Leverkühn, il musicista tedesco, che vende l’anima al diavolo in cambio di un periodo di fecondissima produzione intellettuale e artistica. Pare che, nella creazione di questo protagonista del romanzo, Thomas Mann si sia ispirato all’opera di Schönberg, il musicista inventore del metodo di composizione musicale dodecafonico, il quale portava a decomposizione il sistema armonico messo a punto da Bach circa due secoli prima. Se Nietzsche porta a compimento la metafisica occidentale, Schönberg porta a dissoluzione il sistema armonico di Bach. Lo scrittore tedesco vide nell’uno e nell’altro esempi di una concezione, secondo la quale la creazione artistica debba trovare la propria condizione di possibilità in una radicale frattura con valori tradizionali. Adrian Leverkühn rinuncia alla felicità, che può assicurare alla vita di un uomo l’appartenenza alla buona borghesia tedesca, rinuncia addirittura alla salvezza eterna per acquisire la forza e l’ispirazione necessarie a realizzare composizioni musicali di altissimo livello. Per questo ha bisogno di tempo, non di  tempo normale, ma di tempo privilegiato. È proprio ciò che gli offre il diavolo che lo sorprende una sera che egli si trova solo in casa.

 

Noi vendiamo tempo – gli dice il diavolo – (e colui che lo compra) può assaporare tutta la voluttà d’una qualsiasi insopportabile ispirazione, in modo da essere convinto più o meno giustamente che una ispirazione simile non si è mai avuta da millenni; e in modo da credersi semplicemente un dio in certi momenti euforici. Come fa uno in tali condizioni a curarsi del momento in cui è tempo di pensare alla fine? Fatto è che la fine è nostra, lui è nostro, questo dev’essere chiaro, e non solo in silenzio: per quanto la cosa possa svolgersi anche in silenzio, ma da uomo a uomo, ed espressamente.

Sicché, voi volete vendermi tempo? Domanda Adrian. E il diavolo risponde:

Tempo? Soltanto tempo? No, mio caro, questa non è merce del diavolo. Non così meriteremmo il premio che la fine sia poi nostra. Quale specie di tempo, questo conta! Tempo grande, tempo folle, tempo indiavolato, pieno di baldoria e di tripudio[10]

 

E se ciò che conta è l’auto-affermazione individuale, questa si realizza al di là della verità oggettiva e della salute.

 

Caro amico – dice il diavolo – la tua tendenza a correre dietro l’oggettività, alla cosiddetta verità, a sospettare che il fatto soggettivo e l’esperienza pura siano senza valore, è davvero meschinamente borghese e degna di essere superata (…) Voglio dire che una non-verità tale da aumentare energia può misurarsi con qualunque verità sterilmente virtuosa. E voglio dire che la malattia creatrice, la malattia che largisce la genialità, che scavalca gli ostacoli e nell’ebbrezza temeraria balza di roccia in roccia, è mille volte più benvenuta nella vita di quanto non sia la salute che si trascina ciabattando[11].

 

Infine, questo tempo privilegiato della produzione artistica chiede a chi sceglie di viverlo anche la rinuncia all’amore.

 

L’amore ti è vietato in quanto riscalda. La tua vita deve essere fredda, perciò non devi amare alcuna creatura umana (…) Freddo ti vogliamo, tanto freddo che le fiamme della produzione basteranno appena a riscaldarti. In esse ti rifugerai al gelo della tua vita[12].

 

In questa particolare ricezione di Nietzsche, da parte di Mann, è evidente una critica alla concezione dell’arte come estetismo, cioè quel particolare atteggiamento dell’artista che, in nome del libero espandersi della sua fantasia, prende in odio la vita e disprezza la realtà. In Mann l’arte come estetismo non è affermazione di vita, quanto una sua negazione. Nel Saggio autobiografico, egli scrive:

 

   Poniamo pure che la trasformazione personale che Nietzsche subì in me fosse l’imborghesimento. Ma questo imborghesimento mi pareva, e mi pare ancora, più profondo e più sagace di tutte le ebbrezze estetico-eroiche che Nietzsche suscitò altrimenti nel campo letterario[13].

 

Al «culto della forza, della bellezza e della vita», agli slanci titanici e alla sensibilità spinta fino all’estenuazione dello spirito estetizzante, Mann contrappone l’ironia. Quell’ironia con la quale Mann descrive la figura grottesca di Spinell, «il lattante putrefatto», l’esteta protagonista del racconto giovanile Tristano, per il quale c’è una assoluta inimicizia tra arte e vita, sicché l’artista trova la condizione esclusiva della sua creatività nella negazione di tutto ciò che appartiene alla buona vita borghese ed ai suoi valori. La vicenda si svolge in un sanatorio, come l’altro grande romanzo di Mann La montagna incantata. Qui Spinell incontra una giovane donna malata di tisi e la conduce alla morte, inducendola, contro le raccomandazioni dei medici, ad eseguire per pianoforte il brano La morte di Isottadell’opera di Wagner. La vita viene giocata nell’estasi estetica di un tempo brevissimo, ma intensamente vissuto. Il brano è dominato dal «motivo del desiderio», il desiderio d’amore che non trova e non vuole trovare soddisfacimento se non nella morte, perché solo in essa gli amanti saranno uniti per sempre. Se l’amore si realizza solo nella morte, l’arte soltanto nella negazione della vita «normale», della realtà che gli uomini «comuni» condividono e che l’esteta, vivendo solo per il sublime, disprezza. In Mann, invece, l’ironia ha una funzione di riconciliazione, perché se l’artista nella sua opera è ironicamente distaccato dalla realtà che rappresenta, contemporaneamente getta su di essa uno sguardo clemente.

 

 

Note

 



[1] B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza, 1965, pp. 51-52.

[2] H. BERGSON, La percezione del mutamento, in  Il pensiero e il movente, Firenze, Olschki, 2001, p. 115.

[3] Ivi, p. 116.

[4] F. NIETZSCHE, La gaia scienza, Milano, Adelphi, 19772, p. 129.

[5] Ivi, p. 205.

[6] M. HEIDEGGER, La sentenza di Nietzsche «dio è morto», in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1997.

[7] F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, Milano, Bompiani, 1992, 389.

[8] Ivi, p. 465.

[9] Questa leggenda è stata ripresa da Liliana Cavani in un film di qualche tempo fa Al di là del bene e del male.

[10] TH. MANN, Doctor Faustus, Milano, Mondadori, 1969, pp. 282-283.

[11] Ivi, pp. 296-297.

[12] Ivi, p. 304.

[13] TH. MANN, Saggio autobiografico, in Nobiltà dello spirito ed altri saggi, Milano, Mondadori, 1997, 1460.