Published On: 18 Dicembre 2013Categories: Articoli, La Rivista

di G. Paolo Quattrini

Pubblicato sul Numero 21 di INformazione

Lungimiranza e valore: al di là dei confini dell’io, l’esperienza della qualità.

 

Filosofia è scienza della saggezza, conoscenza concettuale di qualcosa che concettuale non è: la saggezza è figlia dell’esperienza, e nell’esperienza la saggezza si articola attraverso il valore. Per secoli la domanda sull’essenza della realtà ha occupato lo spazio filosofico in tutte le sue figure, finchè Kierkgaard non affermò che questa centralità spetta alla domanda sul valore: cosa vale la pena di fare della propria vita? A questo punto si apre il discorso sulla pratica filosofica.

Se la filosofia è pratica, in che modo si può allora praticare? Fermo restando che la risposta non può essere univoca, una possibilità è quella di osservare come il comportamento di una persona si orienta con la bussola del valore. L’esperienza insegna che le persone in genere si orientano proprio con questa, anche se molto spesso hanno un’idea piuttosto vaga di cosa intendano per bello, buono e logico.

A questo proposito, molto importanti sono le peripezie che il senso del valore ha attraversato nei secoli: bello buono e logico non hanno lo stesso senso di quando Platone e Aristotele fondarono le basi del pensiero occidentale. Nel mondo classico bello si riferiva a un modello naturale: era bello quello che riproduceva le forme della natura1. Buono era rispettare il volere degli dei, e logico era ragionare come Aristotele aveva insegnato, descrivendone i principi inderogabili: l’espressione “Aristoteles dixit” è entrata profondamente fin nel mondo cristiano. Il valore era insomma formale: era la sua ortodossia a consacrarlo tale2.

Con il passare del tempo e il raffinarsi della conoscenza, si arriva a una diversa considerazione del valore: la parola di Cristo accompagna l’uomo dentro l’esperienza del buono e fuori del livello formale, cioè fuori dalla bontà come rispetto della legge: dicendo “lasciate che i bambini vengano a me” Cristo afferma implicitamente che un bambino è capace di comprendere il senso del buono, perchénon essendo rispetto di regole, non è necessario per riconoscerlo né uno sviluppo culturale né la conoscenza della legge. Buono qui appare un assoluto: è il livello trascendentale, non più formale, del valore del comportamento.

Sul piano della logica il livello trascendentale viene raggiunto molti secoli più tardi con Kant e la sua critica della ragione: logico qui è verità a cui tutto ubbidisce, è la manifestazione concreta del Trascendente. In questa accezione logico si identifica insomma con vero: ciò che è vero è logico, ciò che è logico è vero. Logico non è quindi più una forma da rispettare3, ma qualcosa da assumere come valore assoluto. In questa concezione esiste una logica sola, che avvolge e contiene la realtà con una serie di connessioni biunivoche fra cause ed effetti.

In questo allontanarsi dal livello formale, anche il bello diventa assoluto, e per esempio mentre i canoni musicali vengono sempre più chiaramente formalizzati, i grandi compositori li rispettano solo quando fanno loro comodo, in quanto è la bellezza in sé che inseguono, a prescindere dai suoi modelli.

A un certo momento però è apparso evidente che bellezza bontà e logica si possono attribuire solo ad aree parziali della realtà: la cornice in senso stretto è quella che contiene un quadro e la sua bellezza e che lo isola artificialmente dal resto del mondo, proteggendone il valore.

Il termine che indica, invece, la cornice del buono è la parola “fatto”: niente è buono o cattivo se guardiamo la storia umana nel suo svolgersi, ma nei singoli fatti il valore etico è riconoscibile.

Nemmeno la logica è esente da questa considerazione: dedurre che una persona ha preso il raffreddore perché è uscita al freddo senza coprirsi abbastanza sarebbe ingenuo, perché poteva comunque non aver preso il raffreddore, oppure poteva prenderlo anche senza essere uscita al freddo. La cornice che la logica richiede sono i presupposti4 a cui la si applica: se per esempio si postula che il raffreddore dipenda da un abbassamento di temperatura, allora la preposizione di cui sopra risulta logica.

Se bontà e bellezza e logica necessitano di una cornice, questo implica che sono valori che dipendono dalle relazioni fra le parti dell’insieme, e sono dunque valori relazionali, o comunque relativi. E’ questo che ha aperto il cammino dell’arte astratta: non importa se in un quadro c’è una rappresentazione naturalistica, importano le relazioni che hanno fra loro le forme che lo compongono e, al limite, il rapporto che hanno con la cornice5. Importa insomma l’insieme, la Gestalt, la quale trascende la somma delle parti e vive di vita autonoma, e in ogni caso limitata.

E’ così che delle considerazioni logiche tengono insieme un nucleo di senso, il quale vive nel contenitore che esse sono: altre considerazioni potrebbero far vivere un altro nucleo di senso magari opposto, pur essendo ugualmente logiche6. Nella stessa maniera buono e cattivo sono sempre direzioni e mai sostanze, diceva Buber: sono l’orizzonte delle azioni, la loro relazione con lo scorrere della vita, che scorre incessantemente e non ha altro punto di arrivo che la morte7.

Ci sono insomma tre livelli differenti in cui si può osservare il valore: se una persona si muove in relazione con il livello formale farà considerazioni ben diverse che se guarda da quello trascendentale. Ancora diverse ne farà se considera le cose da un’ottica relativa, perchè evidentemente qui il ventaglio di scelte possibili è molto più ampio, e il rapporto con la vita può essere più articolato.

Ora, una delle forze dell’universo è la forza di gravità, e con questa si deve confrontare qualunque costruzione: perché un edificio stia in piedi deve tener conto di questa forza, che in termini correnti corrisponde al peso. Gli elementi architettonici devono scaricare il loro peso a terra, altrimenti tutto crolla: archi e volte trasmettono il sostegno del peso del tetto attraverso pilastri e muri perimetrali fino a terra. La trasmissione del sostegno è insomma un concetto chiave dell’edilizia, che metaforizza la regola base di qualunque costruzione, anche quelle del pensiero.

Logica è quindi almeno trasmissione di sostegno, senza la quale nessuna struttura ha chance di stare in piedi. Non basta però mettere mattoni uno sull’altro per fare un edificio plausibile, e logica, in accordo con la sua etimologia (greco: logos), è operazione che utilizza la razionalità, cioè la trasmissione del sostegno8, per mettere in piedi una architettura a cui possa essere riconosciuto valore. Ora, il termine valore indica qualcosa che può solo essere evocato e non descritto, se non quando si confonde con prezzo, che è invece una quantità misurabile. Il valore di una opera d’arte è altro dal prezzo di un lingotto d’oro, come lo è per esempio anche il valore di un amore, o di un essere umano. Pur non essendo definibile, il valore come esperienza è conoscibile nelle accezioni appunto di bello buono e logico, e valore logico si riferisce a qualcosa che non è semplice funzionamento.

Nel linguaggio corrente razionale si identifica con vero, ma il razionale non è più vero di quello che razionale non è, è solo più funzionante, è una correlazione con cui si può fare qualcosa di utile. Un’operazione razionale per arrivare ad essere logica dovrà avere uno scopo in cui si possa riconoscere un valore: in questa ottica la logica è razionalità percorsa in una ottica di valore.

Logos viene dal geco legein, dire: quello che il logos dice è un costrutto verbale coerente a se stesso, la cosiddetta logica, che narra l’ineffabile e inconoscibile (come direbbe Kant) mondo fuori di noi: le leggi dell’universo esistono in parallelo alle leggi della scienza, che sono legate a loro dal logos, il legame fra ineffabile e dicibile. Dire che si scoprono nuove leggi della fisica è inesatto: è che l’ineffabile che è l’universo, viene ri-velato, cioè nuovamente velato, da discorsi sempre più coerenti e coerentemente paralleli all’universo stesso, che rimane comunque al di là di ogni conoscibilità. Questo parallelismo con l’inconoscibile non è meccanico, ma intuitivo e creativo: è per questo un valore, in quanto perennemente perseguito e mai raggiunto, e mai riducibile a un’oggetto.

Non si tratta dunque della verità in senso assoluto, mauna verità9: per esempio, con il pensiero di Einstein la logica ha permesso all’uomo di realizzare concretamente la scissione dell’atomo, senza aver detto l’ultima parola sull’essenza dell’universo. L’utilità si accompagna qui a una visione del mondo infinitamente più ampia, che apre porte alla scienza, alla vita umana e al sogno.

Anche una narrazione per esempio, per essere interessante ha bisogno di una trasmissione del sostegno, cioè di una trama: solo certi scritti antichi, oppure certe opere sperimentali, sono senza trama e sono piuttosto noiosi. La trama è un susseguirsi di fatti che attirano l’attenzione perché si collegano fra loro in un insieme di senso. I romanzi gialli di solito sono scritti da autori pessimi, che ripetono gli stessi banalissimi pattern: hanno però una trama, che anche se banale è comunque attraente, e infatti quando si scopre l’assassino fa sempre un certo effetto. E’ per questo che hanno avuto tanta fortuna editoriale: la trama non è altro che una concatenazione di fatti che supporta una tensione emotivacoerente, cioè sono sequenze che portano a una narrazione sensata.

La logica va guardata a rovescio: non è la logica che produce il senso, ma è quest’ultimo che mette in luce il filo logico della trama che lo sottende, fra le tante coesistenti contemporaneamente10. Logico non è ciò che produce, ma ciò che supporta un insieme di senso che trascende la somma degli eventi. Si chiama logica insomma una sequenza quando raggiunge una meta: questa ottica comporta che le relazioni di causa e effetto nelle cose umane non sono biunivoche e necessarie, ma possibili e relative al loro effetto.

Quando in una psicoterapia per esempio si ricostruisce la storia di un paziente, lo si fa in via narrativa, cioè cercando senso e una trama che lo supporti, in modo che gli avvenimenti non siano solo concatenati meccanicamente come cause ed effetti, ma piuttosto come elementi architettonici che, realizzandone il valore, allo stesso tempo devono permettere all’edificio di stare in piedi. In questo ambito la narrazione non è quindi la veritàstorica, ma è il senso che la storia offre al suo protagonista: la psicoterapia lavora per effettuare cambiamenti in tema di qualità della vita.

La logica insomma in questo senso è valore, non solo razionalità: una serie di calcoli è un’operazione razionale, un pacchetto chiuso che finisce lì, mentre logico è per esempio quando Hegel dice che la struttura della realtà si appoggia sulla dialettica di tesi antitesi e sintesi, una prospettiva che apre interi mondi. Il logos, il termine greco da cui viene logica, non è semplice razionalità, ma potenza creativa, è la mente umana che dà forma e direzione al caos. La logica è atto creativo, è invenzione: Einstein ha scoperto la strada che trasforma la materia in energia seduto a un tavolino, semplicemente pensando la sua mente ha inventato il cammino che arrivava lì.

La logicità, per quanto può sembrare strano da dire, non appartiene al pensiero ma all’intuizione: è come quando un pittore in un quadro vede i percorsi che legano colori e forme. Qui non ci sono regole, malgrado che l’estetica come la logica sia rigorosa: si può fare qualunque cosa si voglia, ma deve risultare bella. Anche la logica non ha regole, eppure è rigorosa: si può trattare di qualunque cosa, basta che i passaggi portino a un’apertura, a uno spazio. Quando la filosofia cattura l’attenzione ha un odore di spazio, e la quintessenza del pensiero buddista, una religione per così dire filosofica, è il vuoto, cioè lo spazio. Il valore sfugge dal mondo delle cose: il di più che l’insieme è rispetto alla somma delle parti non è apprezzabile sul piano di realtà delle parti. Il valore è in realtà sostanzialmente indefinibile e avvicinabile solo con l’esperienza.

Se dunque anche il valore logico è un’esperienza, figuriamoci quello etico: l’umanità da sempre si arrampica inutilmente sugli specchi per riuscire a contenerlo in parole e concetti. Nella tradizione cristiana il tema della bontà viene connesso con quello dell’immortalità dell’anima: un buon comportamento è quello che assicura la vita eterna. In realtà si tratta qui semplicemente di una illusione grammaticale, come direbbe Wittgenstein: se mortalità infatti è un concetto che proviene dall’avere esperienza di esseri viventi che muoiono, immortalità è una estensione del termine derivata concettualmente per contrasto (se c’è la mortalità perché non dovrebbe esserci il suo contrario?), ma limitata nella sua esistenza al piano astratto11.

La paura della morte però in realtà è un meccanismo biologico, deputato ad accrescere le possibilità di sopravvivenza, e il concetto di immortalità dell’anima è un tentativo di gestire il problema con un ragionamento per assurdo, come si fa nella matematica: cioè, se per assurdo ci fosse una parte essenziale che non muore, il pericolo della morte sarebbe scongiurato. Se diamo per buono questo ragionamento, la conseguenza è che bisogna preoccuparsi di come preservare questa parte essenziale dalle sventure che potrebbero capitare, leggi: bisognacomportarsi in modo da non finire all’inferno, quello che si chiama impropriamente essere buono.

L’attenzione che a questo punto riceve il comportamento e la cura che ne deriva, hanno evidentemente grossi vantaggi per la sopravvivenza individuale e della specie, e si può capire quindi quanto il tema dell’immortalità dell’anima12 persista nel tempo e nella cultura umana e getti la sua ombra su ogni comportamento.

L’immortalità dell’anima è, oltre al resto, un modo di dare tempo, di posporre il momento in cui si fanno i conti della propria vita, il momento cioè di riconoscere che quello che si è fatto si è fatto, e non ci sono altre opportunità: è il momento di rassegnarsi alle conseguenze delle proprie scelte e di ammettere che “si è voluta al bicicletta, e dunque si pedali”. “No, no, no – dice l’essere umano – ancora un po’ di tempo per favore, ho da concludere quello che sto facendo” ma che in realtà non sta facendo e non concluderebbe quindi mai: è insomma un escamotage indispensabile nelle vite inconcludenti, come sono in generale le vite degli esseri umani: quando finisce il tempo precipita la frana di quello che si è fatto e avuto, e l’immortalità dell’anima dà un filo di speranza di poter rimandare ancora.

Da un punto di vista teorico il problema non è dunque cosa sia l’immortalità, quesito risolto da tempo da Wittgenstein con il concetto di illusione grammaticale, ma perché ci si preoccupi di argomentare su una cosa simile, e risulta evidente che la domanda è appoggiata sulla necessità13che il tempo non finisca: è un’ansia che coincide con una aspirazione a possibilità mai avute o perdute, è insomma un sintomo di carenze esistenziali, che richiederebbero una cura dell’anima piuttosto che speculazioni metafisiche.

Se infatti da una parte conviene per la compensazione dell’ansia immaginare una vita dopo la morte, difficilmente si potrebbe considerare buono un rimandare che permette alla persona di non prendersi la responsabilità di fare i conti riguardo ai bisogni della propria vita, di non chiedersi cioè cosa se ne vuole fare del tempo che gli resta. E’ innegabilmente buono un buon vino, e conviene alla convivialità, ma non si potrebbe dire toutcourt che berlo sia cosa buona: non è buono ciò che è semplicemente conveniente.

Ma se buono non è quello che conviene, come lo si potrebbe allora discernere fra le infinite opzioni del fare?

Come logico è un’esperienza, anche buono è un’esperienza, che come tale ha un sapore: il sapore di buono appunto. Il sapore di buono, come quello di logico, apre a possibilità esistenziali: buono è qualcosa che libera l’essere umano dalle costrizioni del destino e gli permette di percorrere sentieri che sembrerebbero improbabili.

Il sapore è comunque immerso in una rete di contingenze: il caffè ha buon sapore, il salato ha buon sapore, ma una esagerata vicinanza spaziotemporale dei due produce qualcosa di emetico, cioè di letteralmente vomitevole. Così anche i fatti possono avere sapori che insieme ad altri fatti contigui si trasformano, e quindi la domanda sul buono è necessariamente limitata alla cornice di un contesto: un episodio eroico non perde il suo buon sapore se a distanza di tempo filia cattive conseguenze, ma chi guarda lo deve tenere separato da eventuali contiguità problematiche14.

Come la razionalità è un uso formale della logica, la moralità è un uso formale dell’etica: qualunque proibizione non è etica ma morale, un livello minimale dell’etica indispensabile per chi non lo supera nel piano trascendentale.

Quanto al bello, una esperienza fondamentale nella vita è quella del piacere: ma questo non va confuso con il valore estetico: bello non è semplicemente ciò che piace.

Non la bellezza di un corpo…. non lo splendore della luce… non le dolci melodie… non la fragranza dei fiori…”15 dice Agostino, ma quel Dio che è “bellezza di tutte le cose belle” è la bellezza16. Un bel vestito in genere non è un prodotto estetico ma semplice moda: l’anno prima sembrava bello, l’anno dopo diventa inguardabile. Le cose che hanno valore estetico sopravvivono al passare del tempo, che falcia via tutto quello che solo piaceva: il bello è quello che rimane.

Un necessario piacersi, il narcisismo17, è fisiologico all’organismo: i bambini si piacciono naturalmente, se non vengono disturbati in questo da forti disapprovazioni. Piacersi è naturale, ma ha anche bisogno di essere coltivato dal feed back del mondo esterno: l’organismo si deve adattare continuamente all’ambiente, pena la sopravvivenza. I feed back orientano il narcisismo, e i genitori esercitano esplicitamente la funzione dell’orientamento: un lavoro necessario, ma che porta spesso a illudersi che il piacersi dipenda da un valore estetico. Se il valore estetico apre gli orizzonti, il narcisismo li chiude: Freud imputava la psicosi a un narcisismo primario da cui la persona non era riuscita a svincolarsi, un investimento cioè della libido su se stessi invece che sul mondo, e una immobilità relazionale per assenza di prospettive.

Per questo è essenziale distinguere la bellezza dal narcisismo, in quanto avendo questo ha un ruolo importante nella sopravvivenza, richiede una sua specifica e ben diversa educazione. Piacersi è fondamentale per la felicità, che in sostanza è lo stato in cui la persona è d’accordo con se stessa sul piano sia psichico che fisico. Riguardo a questo, un problema serissimo si presenta per esempio quando l’evoluzione del costume è così rapida che i genitori non rappresentano più il mondo in cui dovranno vivere da adulti i figli, e i loro feed back diventano confusivi invece che orientanti: gli investimenti narcisistici diventano allora contingenti e di poca consistenza, e lasciano le persone in balia del destino.

Una delle manifestazioni narcisistiche più frequenti, a prescindere dalle differenze culturali, è il vincere. Coltivare il piacersi vincenti ha però molti impliciti: uno è che la vita di solito non permette di vincere spesso, un altro è che più si invecchia e meno strumenti si hanno per vincere18.

In realtà, investire narcisisticamente nelle vittorie sarebbe una autentica debacle, se non ci fosse una strana capacità dell’anima umana, che è quella di potersi identificare con gli altri: su questo si basa per esempio il fenomeno del tifo (per una squadra, per un partito, per la propria famiglia, per la propria nazione, ecc.), a cui è delegato il narcisismo di chi non vince personalmente.

La tendenza ad alimentare il narcisismo della vittoria è fisiologica alla cultura capitalista, dove viene valorizzato tutto quello che si può produrre, vendere e comprare: il mondo occidentale tende a trasformare i suoi cittadini in un’orda di tifosi che investono il proprio narcisismo in gare fine a se stesse19.

Tutti vogliono essere qualcuno, cioè conquistare spazio nella vita sociale, per i benefici che questo comporta per la sopravvivenza. Lo spazio in natura si ottiene con la violenza, che nel contesto sociale è però raramente esplicita, a parte le guerre e le azioni delinquenziali: generalmente da tempi antichissimi viene agita attraverso modalità ritualizzate. Lo sport è una di queste modalità rituali, attraverso cui si vince e si perde senza effetti collaterali distruttivi: questi sono limitati ai tifosi, che non avendo partecipato in prima persona alla lotta hanno ancora da spendere la loro aggressività. Come diceva De Culbertain, l’inventore delle Olimpiadi moderne, l’importante è partecipare.

Proprio il tifo porta in scena un tema interessante dell’essere qualcuno. I tifosi sono fieri della loro squadra: appartengono a una squadra e la squadra appartiene a loro, in modo che quando vince in un certo senso vincono anche loro. Nel passato varie persone, non potendo essere signori, andavano fiere di portare la livrea di un determinato signore, e anche oggi per esempio è diffusa in giappone la fierezza per essere impiegati in una ditta grande e economicamente potente. Vista così sembra pura pazzia, e certo di questa gli esseri umani non mancano: eppure guardando meglio si vede che le cose sono più complesse di come sembrano.

Un essere umano vive grazie ai suoi continui scambi con gli altri, ma come si sa bene il commercio non è fatto solo di scambi puntuali: dalla casa, alla macchina, agli elettrodomestici, tutto si compra a rate, cioè con promessa di pagare. Le promesse si appoggiano su qualcosa, su come la persona si presenta, cioè sull’immagine che dà di sé. L’immagine di sé è l’interfaccia col mondo, è lo strumento con cui si chiede credito, si chiede cioè di farsi dare qualcosa senza pagare subito: l’immagine è talmente importante che può decretare il successo o la rovina di un uomo di affari, a cui le banche non fanno prestiti se non ha credito sul mercato. L’apparire è tanto importante da spingere le persone a fare qualsiasi cosa pur di non perdere la faccia20: lo scandalo rovina, come sanno bene gli anglosassoni, che tradizionalmente ne hanno uno speciale orrore.

Essere socialmente importanti comporta i benefici potenziali del credito, con il quale si fanno gli affari: essere qualcuno dà credito, e non è considerabile una semplice opzione, perché il credito influisce sulla sopravvivenza. Ma essere qualcuno comporta che altri siano nessuno, perché non si è qualcuno in assoluto ma solo in relazione, cioè si è qualcuno più di altri.

In tempi di monarchia assoluta il problema era risolto istituzionalmente: il re, che era tale per volontà divina, sceglieva d’autorità chi fare nobile, mentre gli altri rimanevano nessuno. In tempi democratici la faccenda è ben diversa, e si risolve in genere personalmente: tutti hanno la possibilità di essere qualcuno, posto che ci riescano. E così c’è chi per essere qualcuno sale in cima a un palazzo e spara sulla folla, preferendo marcire in galera per il resto della vita che rimanere sconosciuto al pubblico. Per chi è riuscito ad essere qualcuno questo appare pazzesco, ma bisogna ricordare quello che diceva Bakunin a suo tempo, quando ammoniva la borghesia rispetto al sottoproletariato: chi non ha nulla da perdere, diceva, è capace di metter a ferro e fuoco il mondo.

Il mondo occidentale tende ad assicurare ai suoi cittadini il minimo per la sopravvivenza, e cerca di assicurare anche il minimo di fabbisogno narcisistico attraverso l’uso della cortesia e l’abitudine di chiamare tutti signori: anche un mendicante oggi ha diritto di essere chiamato signore, e di essere trattato cortesemente. Essere tutti di diritto signori non assicura però una importanza sociale: se chiunque è un signore, un signore è chiunque, e siamo di nuovo al punto zero. E quelli che non riescono ad essere qualcuno, oltre ovviamente a tifare per una squadra, che fanno? Un’attività molte diffusa è quella di raccontarsi storie sulla propria importanza: o si sogna di essere importanti, oppure ci si racconta di esserlo, in modo da piacersi in qualche maniera. Per supportare questi racconti qualunque cosa è utile, dall’aver ragione, a tifare per una squadra vincente, ad avere una giusta posizione politica, ad avere un gusto superiore, ad essere vittima di grandi soprusi. Qualunque cosa pur di non sparire nell’invisibilità sociale, che, come gli extracomunitari sanno, è un pericolo mortale.

Uno strumento realistico per riuscire ad essere qualcuno è la famiglia, dove ognuno ha un posto specifico che gli assicura un minimo di visibilità. La famiglia è il luogo dove l’immagine della persona prende forma, si educa e si sviluppa, cresce forte e sana o si ammala portandogli disastri di ogni tipo sul piano esistenziale. Qui sentirsi qualcuno e avere un narcisismo in buone condizioni è la stessa cosa, sempre tenendo presente che il narcisismo è come il sale nell’acqua della pasta, il punto giusto è quando non si sente né per eccesso né per difetto. Quando essere qualcuno non significa stare sopra gli altri, allora è essere insostituibile, essere un partner di scambi che non è intercambiabile con un altro.

Moda e modelli vincenti non sono valori estetici, ma fenomeni narcisistici che piacciono senza per questo essere belli. La bellezza è semplicemente esperienza del bello: bello non solletica la vanità, è qualcosa che trasporta oltre le frontiere dell’io in un misterioso apprezzamento a prescindere dal proprio interesse. Paradossalmente ciò che è molto bello, come per esempio un quadro di Leonardo, in genere non si desidera possederlo, ci si accontenta di farne esperienza.

Quando si lavora come operatore nella relazione d’aiuto bisogna co-creare con l’interlocutore esperienze che permettano cambiamenti, possibilità di ricerche etiche, estetiche e logiche che aprano a un futuro in qualche modo infinito: se si riconosce il valore non c’è una vera necessità di altri parametri, perchè il valore è da solo la stella polare della vita.

Nella pratica filosofica si parte per esempio da episodi concreti, episodi in cui si vorrebbe cambiare il proprio comportamento, e si va a vedere se qui si è inciampati nell’area etica, estetica o logica. Si guarda, cioè, in quali di queste tre aree è la difficoltà, il disturbo, la caduta. Poi si va a vedere nell’area “disturbata” se il livello del valore che la persona ha utilizzato per orientarsi in quell’esperienza è quello formale o quello assoluto, e si lavora cercando di andare verso quello relativo.

Non essendo rivolta alla patologia, la pratica filosofica implica una relazione fra operatori d’aiuto e clienti piuttosto che fra terapeuti e pazienti, e fa parte delle attività di Counselling piuttosto che della psicoterapia.

Seduta

C(liente): Circa quattro anni fa lavoravo in un’osteria, e ho conosciuto un signore che diceva di essere un artista, un pittore. Ogni volta che servivo al bancone veniva a parlare con me. E alla fine mi chiese se mi interessava posare per lui per uno o due quadri e a me sembrò un’idea interessante, diversa… e quindi andai nel suo studio per posare. Solo che una volta lì mi fece un discorso un po’ strano, e mi disse che il quadro era un nudo e che io avrei dovuto posare senza vestiti. E per me era molto difficile dire di no in quel momento della mia vita. E quindi dissi (con tono vivace): “oh, va bene, non c’è nessun problema!” e invece non mi sarebbe piaciuto farlo. E posai per questo quadro addirittura per due volte. E lui mi prometteva un gran guadagno, dicendo che questo quadro era stato commissionato e quindi che avrebbe guadagnato moltissimo. Comunque, dopo queste due volte smisi di posare: lui tornava sempre nel posto dove lavoravo promettendomi questa cosa del guadagno che poi non è mai stata. Alla fine mi ha regalato un quadretto, che ho tenuto sia perché è carino, e poi perché mi ricorda cosa non devo fare quando non voglio farlo. E quindi vorrei essermi imposta di non assecondarlo.

O(peratore d’aiuto): Prendi la scena che vorresti cambiare.

C: La scena che vorrei cambiare è quella in cui io sono nel suo studio, e lui con molta nonchalance mi propone questa cosa e io fingendo di essere una donna di mondo gli dico che “certo va benissimo, non c’è nessun problema”. Invece gli avrei voluto dire “no, assolutamente no. Non mi avevi parlato di questo, io non ho voglia di farlo. Ciao”. E andare via.

O: Perché non gli hai detto di no? Perché sarebbe stato avere un comportamento brutto, cattivo o stupido?

C: Per non deludere la sua aspettativa.

O: Quindi per non farlo soffrire e non essere cattiva.

C: Sì.

O: Non dici di no per non fare qualcosa di eticamente sgradevole: per te era sgradevole deludere l’altro. Guarda un po’ che genere di etica utilizzi qui: è un’etica formale, cioè ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno perché così è scritto? O un’etica assoluta, è male far soffrire qualcuno?

C: Non lo so… in quel momento della mia vita non volevo deludere nessuno, volevo sempre essere all’altezza delle aspettative di tutti.

O: Quindi quella che utilizzi in questa situazione è un’etica assoluta. Guarda un po’: secondo te è cattivo in assoluto deludere?

C: No.

O: E in che modo stabiliresti le differenze?

C: Credo che si possa dire buono guardare le aspettative degli altri e a seconda dei contesti, vedere quando è il caso di andare incontro agli altri.

O: Ma cosa sarebbe buono? Soddisfare l’aspettativa dell’altro, soddisfare la tua, soddisfarle tutte e due?

C: Io credo che sarebbe buono prima di tutto soddisfare la mia, forse…

O: Se dici che è buono soddisfare la tua ti metti in un impiccio, perché le tue esigenze etiche ti sconfermano (infatti non hai potuto dirgli di no). Buber diceva, bontà e cattiveria non sono mai sostanze ma sempre direzioni: a me sembra una definizione piuttosto luminosa. Prova a pensare in questa direzione: se valore etico riguarda una direzione e non l’assoluto, nel tuo racconto quale potrebbe essere una direzione? Puoi dirgli di sì andando verso dove? Puoi dirgli di no andando verso dove? Immagina possibili aperture per trovarne una che ti soddisfi eticamente: dirgli di no soddisfa solo un tuo bisogno a danno dell’aspettativa dell’altro. Se lo metti in prospettiva, allora come potresti vedere la cosa? Prova a cercare una prospettiva per un no soddisfacente: cosa poteva portare di bello e di buono dire di no? L’etica non si ferma al confine dell’io, quindi qualunque discorso fai semplicemente in tua difesa non ti sarà sufficiente sul piano etico: bisogna che trovi una prospettiva in cui la tua scelta abbia una direzione buona, che abbia qualcosa che è buono per te, per lui, per tutto il mondo, sennò non sei soddisfatta. Devi guardare in avanti, verso una stella polare, verso qualcosa che non esiste ancora.

C: … riesco solo a vedere cosa può essere buono per me… dire di no lo vedo solo riferito a me stessa…come una specie di scontro tra me e lui…

O: Finché lo vedi come uno scontro fra voi non c’è possibilità di prospettiva etica. Prova a immaginare in che modo potrebbe essere interessante non solo a te ma anche a lui. Si tratta di dare una prospettiva al tuo no tale che alla fine ricada anche su di lui come una cosa buona.

C: Il mio no sarebbe dovuto al fatto che non c’è stato da parte sua un dire le cose fino in fondo per cui io non posso accettarlo perché è stato detto all’ultimo minuto.…

O: Secondo te, a lui come essere umano, gli fa bene imbrogliare le persone?

C: No, certo. E quindi si tratta di fargli capire questa cosa…

O: … è una fissazione che tutti abbiamo che far capire risolva tutti i problemi! Quello che mi viene in mente è, ad esempio, impedirgli di farsi male imbrogliandoti. Perché lui imbrogliandoti forse si fa male, fa un po’ di squallore intorno a sé e dentro questo squallore poi ci deve stare. Allora una prospettiva eticamente sensata poteva essere, per esempio, dirgli di no con un sorriso?! Per simpatia a lui e alla sua anima…

C: Sì…. Senza rabbia!!!!

C ha un inshigt fondamentale: la differenza è fra dirgli di no con rabbia o senza rabbia. Non arrabbiarsi significa non alimentare un senso di frustrazione dovuto all’impotenza nella situazione, e d’altra parte non aggredire il pittore, che C in fondo non ritiene colpevole, rendendosi conto che la difficoltà della situazione deriva dalla sua incapacità più che dalla cattiveria dell’altro.

O: E che effetto ti fa se immagini di dirglielo? Come stai?

C: Come se mi calzasse a pennello!

O: E stai meglio?

C: Sì. E riesce a calzare alla me di allora, che era così spaventata di dire no… Sì, sì, è vero.

O: Qui vedi la differenza tra un approccio etico in un quadro di etica assoluta e quello di un quadro di un’etica relativa. Relativa a una prospettiva, a un futuro, relativa a qualcosa che non c’è, ma in qualche modo c’è, anche se non c’è ancora. Ti torna?

C: Sì. Perfettamente.

O: È molto difficile fare lì per lì questa operazione, e anche a distanza di tempo non ti è venuta facile, ma una volta fatta è semplicissima: prima di farla è difficile, probabilmente soprattutto per ragioni culturali, perché noi siamo ancorati al livello assoluto di questi tre valori. Il grande cammino dell’umanità è stato spostarsi dal livello formale al livello assoluto del valore: arrivati all’assoluto, il cammino poi verso livello relativo è recente, appartiene alla filosofia del ‘900. E’ l’esistenzialismo il pensiero che matura con la teoria della relatività e che ha aperto tutto il campo della conoscenza, dalla fisica, alla filosofia alla psicologia. La mentalità comune (scuola, giornali, televisione) è arretrata culturalmente e di almeno un secolo: non si ragiona con gli strumenti del pensiero raggiunto negli ultimi decenni, ma con la visione scolastica, che di solito ha almeno cinquanta anni di ritardo. Il massimo sviluppo del nostro pensiero quotidiano arriva a Kant ed Hegel, in genere più in là non si va. Se ci si sposta in avanti, si trovano più facilmente soluzioni per problemi impossibili, quando dal punto di vista kantiano o hegeliano da lì non ci si leva le gambe.

Una cosa importante è che hai detto che la cosa ti calza perfettamente. Non è in realtà difficile, è più facile, ma è il back-ground del pensiero normale che la rende difficile.

C: Sì. Quando l’hai detto ho pensato: ma sì, certo!

O: E’ la difficoltà è riuscire a spostarsi dall’assoluto al relativo: è come spostarsi dalla fisica newtoniana alla fisica einsteniana, e effettivamente mica è uno scherzo.

 

 

Seduta

 

C: Mi chiamano da un’altra associazione per fare un progetto per un bando, e la vicepresidente mi dice: “voglio fare un incontro, poi lavorare una quindicina di giorni e poi fare il progetto” Allora io domando. “di cosa esattamente avete bisogno?”. E lei risponde: “avremmo pensato di fare un progetto di formazione per i nostri volontari. Il progetto esce a nome della nostra associazione, ma ovviamente resta suo.” “Ah, allora va bene: il progetto è mio”. E la cosa finisce qui.

O: Che cosa vuoi cambiare di te in questa scena?

C: Avrei voluto dire: se questo progetto non viene approvato, non risulta da nessuna parte che ho lavorato per voi. E come intendete quantificare la mia opera?

O: E in altre parole che cosa volevi chiederle?

C: Che ci fosse un riconoscimento attraverso una lettera d’incarico, o un pagamento di almeno un terzo del lavoro…

O: Volevi che ti dessero una lettera d’incarico oppure un pagamento?

C: Il pagamento. Una quota almeno per il lavoro fatto finora.

O: Come avresti dovuto chiederglielo?

C: “Sentite, io sono disposta a lavorare per voi, ma se non compare il mio nome o quello della mia associazione, bisogna che ci sia una altra forma di riconoscimento del mio lavoro. Il riconoscimento passa da due cose: o un riconoscimento formale con una lettera, oppure un anticipo parziale del compenso che poi potrebbe essere rivisto al momento della risposta del bando. Quello che ho fatto per voi è comunque lavoro: è passare idee, vendere idee.”

O: Questa cosa non l’hai detta per quali ragioni? Non ti sembrava bello, non ti sembrava una cosa buona, o una richiesta logica?

C: Diciamo per una ragione etica. Mi sembrava bellino non occuparmi di affari…

O: Guarda un po’: su che genere di etica ti sei appoggiata per rispondere così? Hai curato la forma o hai seguito un modello assoluto di comportamento?

C: Mi sembra formale.

O: Una bontà formale è una bontà che risponde a regole, a una formulazione standard. A quale regola di bontà ti sei conformata per fare quello che hai fatto?…

C: (ridacchiando) Quando si parla di creatività non si parla di soldi: non è troppo chic parlare di soldi.

O: Ma chic non ha a che fare con buono, ha a che fare con bello. Non è bello domandare soldi al primo incontro: questa è la regola formale che hai rispettato. Se avessi invece perseguito una bellezza assoluta, che considerazioni avresti rispettato?

C: Bello è creare un progetto e metterlo a disposizione di tante persone che altrimenti non avrebbero modo di conoscerlo.

O: Che cosa ritieni bello al di là del formale? Il rispetto delle forme dice di non chiedere soldi per delle cose creative. Ma, per esempio, Michelangelo che dipinge la cappella Sistina è bello o no?

C: Bello…

O: E lui i soldi li ha presi… Allora, se allargassi un po’ la visione del bello al di fuori del livello formale “non si fa perché le forme dicono che non si fa”, che sarebbe bello? Guardati mentre porti questo progetto. Che cosa sarebbe una bella scena se tu la vedessi da fuori, guardando da un punto di vista assolutamente estetico: se fosse un quadro, un pezzo di teatro, che scena ti piacerebbe vedere?

C: La vicepresidente che dice: “splendido, una splendida idea, mi posso appoggiare… è quello che avrei voluto fare e tu hai avuto il coraggio di farlo”.

O: E questo è bello, oppure fa comodo a te?

C: Beh…

O: Lo senti Kant che si rigira nella tomba? “Non è bello ciò che piace, è bello ciò che è bello!” Cerca qualcosa che sia bello.

C: Tre persone così, in uno studiolo brutto… non ha niente di bello…

O: Non penserai mica che la bellezza sia fatta di cose esplosivamente colorate e meravigliose. In “Aspettando Godot” mi pare che ci siano due personaggi e un albero. Quello che ti ho chiesto è una scena bella: bella vuol dire che se c’è un pubblico lì che la vede dice “ma che bella scena!” Mentre cerchi bello, come fai a cercarlo, dove cerchi? Dove lo vedi il bello nelle parole… dove orienti la tua attenzione? Il passaggio che cerchiamo è da un’estetica formale, dove non puoi chiedere perché pare brutto, a una scena più interessante drammaticamente. Dove cerchi bellezza, cosa persegui, qual è la bussola della tua ricerca? Con che criterio stai cercando di creare questa scena di teatro?

C: Non ce l’ho la bussola…

O: Se non ce l’hai cercala, è inutile che ti muovi senza, prima la devi trovare. Dove puoi trovare la bussola del bello? Dove vai a cercarla? Per trovarla bisogna che cerchi delle esperienze in cui hai vissuto bello, nella memoria dell’esperienza di bello. Racconta qualche volta che hai vissuto bello, un’interazione tra due persone che ti ricordi che ti è piaciuta.

C: E’ una scena in cui io dico: “Ma ti rendi conto di che cosa stai facendo!?”… e il mio partner risponde… “Che stai dicendo? Io non capisco di che parli…” eccetera. La bellezza sta nel fatto che due persone che avevano due storie diverse si rivelavano.

O: Quindi la bellezza era nel dispiegare queste differenze: che c’era di bello in questo?

C: Bella era l’interazione…

T: L’oggetto bello è questo svolgersi delle differenze: ma cosa c’è di bello in questo? È stata un’esperienza di bellezza, e lì hai un’indicazione. Lì c’è una bellezza, bisogna che la tiri fuori per portarla in quest’altro episodio. Perché dire “pagatemi” è brutto, e perché invece questi due personaggi che si incontrano nelle differenze è bello?… Cerca di spiegare questo, e ricordati che ti devi portare dietro qualcosa che hai scoperto: se non scopri qualcosa che ti puoi portare dietro è inutile che lo scopri.

C: In quel contesto il dipanarsi del processo poteva essere più ampio e più arricchente…

O: Quindi quello che sarebbe stato bello è un dipanarsi del processo. Invece di dire, voglio essere pagata, fare qualcosa che sarebbe stato un dipanarsi del processo. E che sarebbe stato un dipanarsi del processo? Che avresti potuto dire? Loro che avrebbero risposto? Come potrebbe essersi sviluppato questo dialogo fra voi?… Ricordati la sensazione di bellezza che hai avuto quella volta e cerca di tenerla come bussola… e con quella bussola lì costruisci delle battute che abbiano uno svolgimento soddisfacente. Che cosa vuoi che C dica alla vicepresidente?

C: “Mi piacerebbe non solo che tu potessi fare una parte del lavoro, ma che tu sentisse quanta parte di te c’è in questo progetto…”.

O: E che ne sai quanta parte di lei c’è in questo progetto? Devi fare una scena plausibile, un teatro che a guardarlo dici “ah che bello!” Perché non hai potuto dire: “pagatemi”? Perché sarebbe stato brutto. E allora devi trovare un modo di costruire una scena che sia bella. Ritorna alla scena che ti è piaciuta e ascolta il senso di bellezza. Dov’era? Da cosa era dato? Tu dici dal dipanarsi di queste differenze. Ma come era, in cosa consisteva?

C: C’erano due persone, una di fronte l’altra, a confrontarsi sul perché…

O: Queste sono astrazioni… quello che fa teatro sono le parole e i toni di voce: cosa dicono loro che a te piace? Perché ti colpisce, dove è bellezza? Con quali parole e con quale tono di voce?

C: C’era un confronto diretto, e a un certo punto da parte mia c’è stato l’arrendermi all’evidenza che non avevo ragione…

O: La scena che usi come bussola è una scena fra due che hanno un legame affettivo, e questo non lo puoi sovrapporre a questa, dove i personaggi non ce l’hanno: ritorna lì e guarda che cosa ti è piaciuto. Nella scena lei dice “ma che stai facendo” e lui risponde “ma che dici, non capisco niente di quello che dici.” Dove ti colpisce, che interazione è? Dicendo “ma che dici?”, “ma io non capisco”… che stanno facendo?

C: A me sembra uno che si svela semplicemente… “io sono così”…

O: Lui fa qualcosa che ti porta a un senso di bellezza… ma che cosa fa? Dice “ma che dici!” Cosa fa? Se lo guardi bene vedi che lui semplicemente tiene il punto senza offendere.

C: E’ vero, tiene il punto senza offendere!

C riconosce qualcosa che non avrebbe visto senza l’aiuto di O, ritenendola troppo piccola per poter essere importante: questo è il punto clou della seduta, dove entra in campo qualcosa di nuovo e si può operare una trasformazione nell’esperienza di C.

O: Tenere il punto senza offendere è difficilissimo, ed è un costrutto esteticamente soddisfacente.

C: Infatti è quello che io tento di fare con la mia socia…

O: Qui hai un’indicazione. Tu dici: “chiedergli i soldi sarebbe brutto”, e poi “una volta che ho visto bello era un’interazione in cui un personaggio teneva il punto senza offendere l’altro”. Ora riporta questo nell’altra situazione: come sarebbe chiederle i soldi senza offenderla, senza dirgli “voglio i soldi”, che sarebbe come dire “sfruttatrice, pagami!” Come puoi chiederle i soldi senza offenderla? Secondo me sarebbe meglio che prima facessi un progettino e poi lo mettessi in parole: come sarebbe non offenderla… come è possibile non offendere chiedendo soldi… come si può mettere? Comincia a mettere giù qualcosa di positivo… tipo come posso chiederle i soldi senza farla passare da una che mi vuole sfruttare?

C: A parte la gentilezza del tono…

O: Eh… la gentilezza del tono fa la sua differenza…

C: … che sia aperta a due o tre possibilità…

O: Per esempio! Anche quella è una cosa su cui puoi giocare. Quindi il progetto sarebbe dirlo con tono gentile e tenere presente il fatto che miracolosamente c’è più di una possibilità.

C: (con tono un po’ neutro…) “Siamo d’accordo sui contenuti del progetto, però se devo andare avanti ho bisogno di sapere se riconoscete almeno una parte di questo lavoro, indipendentemente dal fatto che sia pagato o meno…”

O: Prova a metterci una cucchiaiata di miele.

C: (con gentilezza) Allora mi sembra che siamo…

O: (ridendo) Stai sopravvivendo alla gentilezza, chi l’avrebbe detto…

C: Il passaggio allora è dalla diplomazia alla gentilezza!

O: Sì, è un cucchiaio di zucchero…

C: (con gentilezza) “Mi sembra che stiamo andando bene negli accordi per la progettazione… io sono molto soddisfatta del nostro incontro. Però forse potremmo pensare a un aspetto pratico su come andare avanti.”

O: L’altra cosa su cui contare è che hai almeno un’alternativa…

C: Sì… “E come possiamo regolarci sul futuro di questo progetto… (con tono più spento…) Possiamo sperare nel finanziamento… posso avere una garanzia…”.

O: Hai finito il dolce: lo sai che cosa ti fa finire il dolce? La fifa! Allora, più hai fifa, più devi mettere miele. Ora devi andare avanti: fin qui il miele c’è, poi finisce al momento di parlare di accordi…

C: Allora… “Stiamo andando bene, potremmo mettere a fuoco contrattualmente questo progetto, possiamo definire qualcosa di molto semplice… potete scegliere se pagarmi la parte svolta fino ad ora oppure l’altra possibilità è che mi mandate semplicemente una lettera d’incarico per il lavoro che dovrei fare.”

O: Va bene. Posso proporre una sintesi?

C: Sì.

O: (con voce buffamente gentile). Voi cosa preferite, darmi una lettera d’incarico, o pagarmi un anticipo?” Prova un po’ a dirglielo e a vedere che succede…

C: (con voce gentile) Cosa preferite, farmi una lettera d’incarico, o mi date un anticipo?”

O: Lo senti che la voce ti è rimasta morbida e non hai fatto nessuno sforzo?

C: Ah, sì…

O: Quando hai fifa ti muoiono le parole in bocca, e invece di dirne il meno possibile, ne dici troppe. In questa maniera invece c’è una bellezza. Ti viene facile da dirlo perché ti suona bello, c’è un senso di bellezza per cui ti è possibile dirlo. Il problema è che bello o brutto sono un peso enorme sull’anima, se una cosa ti sembra brutta ti si ferma per la gola, non riesci a dirla… Bello è l’esperienza di qualcosa che ha il permesso di uscire fuori: se lo trovi bello è aperto il canale, altrimenti uno di solito si ferma perché è fondamentalmente rassegnato.

Lavorandoci, questi sono stati i passaggi: cercando il ricordo dell’esperienza di bello, e riportando l’esperienza del bello sulla situazione problematica, hai potuto immaginare di dire la cosa senza difficoltà.

C: C’è un’altra cosa che me l’ha permesso: la bussola.

C riconosce un passaggio fondamentale della seduta, lo sviluppo di uno strumento di orientamento.

O: Sì. La bussola è una metafora utilissima, importantissima: senza bussola ti muovi a casaccio e non trovi quello che ti serve. Se invece dipani il pensiero e pensi in termini di strumenti, trovi la bussola: Sì, è stato bello, ma cosa era bello? Lì è stato il nucleo della faccenda: il bello era tenere il punto senza offendere. E hai visto quanto è difficile farlo e quanto però, è apprezzabile, attraente, interessante…

Bisogna però scendere nei dettagli per trovare che bello risponde per esempio a tenere il punto senza offendere. A questo punto ti si è dipanato il cammino: è difficile, ma non è difficile davvero, lo è perché non siamo abituati e usiamo la mente in modo estremamente approssimativo. E non siamo abituati a portare il processo analitico dentro l’estetica e dentro l’etica: se si fa le cose si dipanano, l’esperienza della bellezza si dipana in itinerari, in strutture architettoniche, in un percorso abitabile… ci vuole attenzione e speranza. Se non speri che possa succedere non ci arriverai mai: quando invece ammetti che se hai sentito qualcosa vuol dire che qualcosa c’era, comici a cercare cos’era in termini operativi. Cioè si tratta di portare la questione a qualcosa di maneggiabile, tirandola giù dell’astratto. Trovare qualcosa di astratto è facile, ma poi non serve: la ragione è strumento, se non funziona non è ragione. Via via che lo si fa si dipana una cultura analitica del buono e del bello.

Quando si va a vedere ci si accorge che già la logica la si usa in modo estremamente approssimativo: sul bello e sul buono non abbiamo nemmeno un livello analitico minimale, siamo come bambini delle elementari.

1 I bronzi di Riace ne sono un esempio lampante.

2 Nella storia antica si possono certamente eccepire molti esempi, che però non riguardano la modalità generale di procedere in materia di valore.

3 La logica formale di principi aristotelici e del sillogismo.

4 Per esempio la logica della geometria euclidea sono i postulati stabiliti da Euclide.

5 Cfr. Carlo Sini, “Il silenzio e la parola”

6 Dallo stesso pensiero hegeliano derivano per esempio sia il comunismo che il fascismo.

7 Per le opere di Nietzsche si fa riferimento all’edizione “Opere di F.Nietzsche” (Adelphi, Torino 1967); L’eterno ritorno (Monanni, Milano 1927)

8 Si può a rigore discutere sull’assolutezza della relazione causa-effetto, ma indiscutibile è certo la trasmissione del sostegno: se si vuole che qualcosa si appoggi su qualcos’altro, che si tratti di architettura o di organizzazione del pensiero, bisogna che questo qualcos’altro gli permetta di scaricare il suo peso, ovvero gli trasmetta un sostegno. Senza sostegno tutto cade, come le mutande senza elastico.

9 Wittgenstein, uno dei grandi maestri del pensiero contemporaneo, diceva : “le mie proposizioni illustrano così:colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse- su esse-oltre esse (egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito)”Tractatus logico philosophicus, 6 54.

10 Nel “quartetto di Alessandria”, L. Durrel racconta gli stessi avvenimenti visti con gli occhi di quattro protagonisti diversi, e diverso risulta il senso di ognuno dei quattro romanzi e le trame che lo evidenziano.

11 L’idea dell’immortalità, che è causata da un procedimento razionale, arriva a conseguenze irrazionali: esserci su un piano concettuale non implica infatti un’esistenza sul piano esperienziale. Questa esistenza è congrua a un bisogno prettamente emozionale, e dunque esistenziale piuttosto che filosofico: l’uomo (occidentale) si interroga su questo per paura, malessere, angoscia: dal punto di vista del pensiero, l’immortalità dell’anima serve a tenere in piedi la teologia con annessi e connessi piuttosto che a supportare la speculazione filosofica, che dall’assenza di questa idea avrebbe da guadagnare parecchi stimoli (per esempio la spinta a cercare che senso ha la vita se deve finire)

12 Ma dal punto di vista esperienziale, il concetto di immortalità dell’anima è indispensabile per gestire la paura della morte? Epicuro diceva: non mi preoccupo della morte, perchè finche ci sono io non c’è lei, e quando c’è lei non ci sono più io. Questo sul piano logico taglia la testa al toro a questo tema.

13 Interessante notare che questo desiderio non è appannaggio solo delle persone che hanno una vita soddisfacente, ma anche di quelle che fanno una vita brutta: qui appare evidente che il tempo desiderato non è per continuare con quello che fanno, ma serve alla speranza di potere raggiungere quello che desiderano.

14 La rivoluzione francese ne è un esempio lampante.

15 S.Agostino le confressioni

16 E’ il livello trascendentale dell’estetica.

17 Data la sua origine psicanalitica, il termine narcisismo si può erroneamente ritenere un concetto, ma come altre parti del corpus freudiano (vedi il “complesso di Edipo”), è una metafora che sta per è come quello che accadde al personaggio mitico di Narciso, che affogò nel lago in cui contemplava la sua immagine rispecchiata. In quanto metafora è utilizzabile senza necessità di aggiustamenti in un approccio fenomenologico esistenziale: la storia di Narciso è un mezzo di conoscenza narrativo metaforica, che mette in luce i possibili pericoli del piacersi.

18 Un terzo, più importante di tutti, che la mistica della vittoria è fisiologica alla Weltanschaung nazifascista.

19 …che producono il razzismo come inevitabile by-product.

20 da qui nasce l’uso dell’estorsione tramite ricatto, che incrementa l’omicidio e la letteratura gialla che di questo si nutre.