Published On: 20 Novembre 2014Categories: Articoli, La Rivista

di BRUNO CALLIERI

Docente di Psichiatria e docente di Clinica Neuropsichiatrica, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

Pubblicato su “INformazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia”, n°6 novembre-dicembre 2005, pagg. 2-11, Roma

 

Un’importante modalità umana di sofferenza, quella depressiva, si mostra particolarmente atta ad essere illuminata nell’approccio antropologico. A premessa e giustificazione di quanto dirò è opportuno ricordare che l’analisi fenomenologica della ”presenza” del malinconico e del suomondo vissuto si prefigge: a) rendere possibile il recupero personologico, anche parziale, rispetto alla attitudine reificante della nosologia clinica (Callieri, 1992); b) cogliere i fenomeni “psicopatologici” nel loro darsi come modalità espressive dell’umano; c) attraverso la riconsiderazione del fenomeno come espressione del soggetto, della persona cioè dell’Alter – Ego, pervenire a far riacquistare al fenomeno stesso la ricchezza e il significato della realtà vivente.

Ciò implica, come già ampiamente detto altrove (Callieri, 1982) la “costituzione dell’intersoggettività”  (Cullberg, Kimura Bin), secondo cui “l’Io come individuo è un’astrazione, e solo l’Io che sta in rapporto costitutivo (ab origine) con un Tu nel “Mondo” ha concretezza”. L’Ego, preso come “solus”, precede soltanto concettualmente la vita intersoggettiva (quello che Kimura chiama aida, e che Merleau – Ponty inquadra in una celebre pagina di Phénoménologie de la perception – pag. 465 dell’edizione italiana).

Se, antropologicamente, il problema resta quello della costituzione dell’Altro, clinicamente la questione che si propone alla riflessione psichiatrica sulla melanconia è quello della “mancanza del propriamente con – esserci” (das Fehlen des eigentlichen Mitseins, di Heidegger), della mancanza del Mitmenschen: lo svedese Geiger e l’ebreo Hermann Cohen espressero chiaramente ciò già molti anni fa. È proprio questa mancanza di noità, questa chiusura alla dimensione del dialogo, questa solitudine radicale che viene ad emergere (più o meno evidentemente, ma “sempre”) nella condicio humana melancholica (E. Straus, H. Tellenbach), nella depressione, anzi proprio incarnandosi nella sua articolazione psicopatologica. “La mia malinconia – dice Kirkegaard nel suo Diario, VIII A 27 – ha per molti anni lavorato a far sì che io non potessi dare del tu a me stesso”.

Invero la prima testimonianza che la maggior parte dei melanconici riesce a fornirci (e già Aretes di Cappadocia mirabilmente la colse e descrisse – cfr. Roccatagliata) indica inequivocabilmente la coartazione del proprio mondo vissuto, che poggia sulla più  radicale mortificazione dellatemporalità e della spazialità.

Il depresso, invero, ci ostende il suo corpo (la sua “presenza”) come qualcosa di divenuto pesante, di ostacolo, di “soma”, di impedimento, da cui è migrata via ogni possibilità di slancio. Ciò implica che il proprio “temporalizzarsi” non si realizza più secondo un tempo vissuto in funzione di un tempo da vivere, in perpetua genesi: un tempo ripreso, ricominciato, ma si congela in untemps figé, nel tempo chiuso dell’angoscia, nel tempo suicidario. Però lo slancio implica anche il proprio spazializzarsi, cioè la spazializzazione come dimensione aperta dell’esistenza, come movimento che diviene comunicazione, linguaggio, ri – volgersi, interlocuzione, investimento, progetto.

Invece l’esperienza vissuta melancolica si situa esistenzialmente in uno spazio ridotto, coartato, raggrinzito, bloccato in uno spazio che si rasserra esclusivamente nella dimensione della chiusura: rétrécissement, barrage, eclissi.  Gli accessi che l’analisi fenomenologica consente al temporalizzarsi e allo spazializzarsi del melancolico (si pensi al concetto di Tellenbach della “Remanenz”, del restare indietro), ci fanno cogliere qui, proprio come istanza di base della solitudine dell’esister – melanconico, la carenza totale della temporalizzazione, il suo arresto (von Gebsattel): il tempo non fluisce più, questo tempo che invece, col suo fluire, mi sintonizza agli altri, che mi fa essere – con (Mit- sein).

E che mi fa trovare un senso, anzi mi costituisce come coscienza intenzionata, come coscienza che fonda in me la mia prima realtà alter – egoica, che si pone quale orizzonte di altre possibili esperienze. È questa “donazione di senso” che ci consente di parlare di fondazione trascendentale del mondo. Qui, per negativo, il melancolico ci offre in modo pregnante, anche visivamente, ilblocco della donazione di senso e ci consente di coglierne tutta la portata esistenziale.

È proprio in questa caduta della donazione di senso, in questa sua radicale eclissi e crisiche trova luogo il grande tema della corporeità (Callieri, 1992), come è vissuta vitalmente dal depresso: trascino, rimorchio il mio corpo, che coincide con la pesantezza del corpo – che – ho.

Dell’esperienza vissuta della pesantezza, del sentirsi – giù, viene ad impregnarsi totalmente la fisionomia, la gestualità, la motorica, lo stile, il portamento (Straus, Blankenburg).

In altri termini, il primo oggetto investito dalla donazione di senso del depresso, che è appunto il suo stesso corpo, si mostra totalmente compenetrato dal nebbioso vapore melancolico  e non consente più nemmeno un margine di nascondimento. Nemmeno l’autodominio dello sguardo può nasconderlo. Diceva Plinio: Profeto in oculis animus habitat; dunque identificazione inconsapevole e massiccia del melancolico con il proprio corpo pesante, divenuto “anti – Ariele”, fattosi esso stesso gravame e sòma, carico e baule, incapace di darsi un senso e di dare un senso, di cogliere il motus animi dell’altro, l’invito all’incontro, alla carezza, incapace di progettarsi nel mondo (la Verweltlichung di Zutt).

Accanto alla pesantezza si pone la lentezza (dato fenomenico mondano estremamente pregante): la lentezza, non frutto di un esser guardinghi o di un cauto e timoroso incedere, ma ineliminabile portato del proprio esser – pesanti, del non – farcela – più, di una fatica èpuisante ed inane, che traspare, trapela, trasuda da ogni gesto, da ogni “mossa”. Non si tratta però soltanto di un peso schiacciante che tutto rallenta e intoppa; c’è anche, palese, la mancanza di una spinta a rapportarsi alle cose, la caduta di un élan, infine l’incapacità di progettarsi una trama spaziale e temporale di rimandi tra me e le cose. Ecco quindi, rifugiata, tacita, muta, nel letto o nella poltrona, la grande solitudine (anzi il grande isolamento) del depresso ancorarsi (secondo me) al disturbo profondo della temporalità e della spazialità: l’arresto del divenire, di von Gebsattel, come disturbo fondamentale (Grundstorung) della melancolia, con il suo innegabile ancoraggio al bios, anche circadiano, ciclico. Così, ad es., il depresso che, buttato sul letto, col telefono a portata di mano, non riesce a telefonare neppure a una persona cara; ma non perché ne sia impedito fisicamente, come il paralitico, ma perché c’è un collage insormontabile tra l’inerzia che pervade la mano (me – mano) che dovrebbe appena allungarsi verso il telefono e l’inerzia del motus animi che dovrebbe pro – tendersi verso quell’amico. È come se l’apparecchio telefonico avesse perduto il suo carattere di invito, di oggetto a portata di mano, che può aprirlo all’incontro. C’è, come accennavo sopra, un vero e proprio rapprendersi nel proprio corpo, che diviene soltanto pesantezza e staticità senza scampo, rivelando, in ultima analisi, la perdita di quella categoria fondamentale della presenza (Cargnello), che è appunto la “corporeità progettantesi nel mondo”, la mondanizzazione del corpo (Verweltlichung, di J. Zutt).

Nel suo incontro mancato con ogni oggetto (dico “mancato” e non dico “rifiutato”, perché questo secondo termine include una volontà negativa, che rimanda comunque ad una progettazione) il depresso ci testimonia in modo inequivocabile quella che dicevo essere la sua coartazione esistenziale. Ogni sollecitazione soggiace a un sordo lasciar cadere, a uno stagnante  “restar – indietro” (la Remanenz, di Tellenbach). Questo restar – indietro, per usare una illuminante frase di Eugène Minkowski, “s’inspire uniquement de la mort et l’introduit en nous de notre vivant”. Credo che Tellenbach, oltrepassando una concezione metapsicologica (penso a Karl Abraham) e approfondendo l’ambito della situatività, abbia davvero còlto questo punto fondamentale che è appunto la solitudine dell’esserci melanconico, espressa e testimoniata dalla difficoltà, spesso immane, a partecipare alla vita e agli interessi quotidiani ovvero dall’inutilità diogni possibilità declinativa (perfino di quella concernente l’orizzonte limitato del presente), dal taedium vitae, dall’acedia, dalla noia (Maggini e Dalle Luche), dall’appesantimento e rallentamento della propria esistenza (con scomparsa di ogni movimento di futurizzazione), dalla radicale coartazione del con – esserci; in tale dis-graziata evenienza (che è più Ereignis che Erlebnis, cioè è più accadimento che avvenimento) la dimensione dell’ “essere – nella –  tristezza” invade tutti gli ambiti psichici, emotivi e cognitivi, coinvolgendo globalmente la sfera  personologica. Il singolo non è più in presenza della tristezza, non è più per la tristezza, ma è radicalmente congelato in essa, si sostanzia di essa. A seconda delle peculiari tematizzazioniesistentive, questo particolare squallore interiore del melancolico, tinto di colpevolezza e di inquietudine, sembra valicare la sfera personale per divenire general – umana, trascendentale, dis- umana. Immersa nell’indifferenza e nel grigiore nebbioso, la protensione intenzionale, cioè la “donazione di senso” (la Sinngebung) appare gravemente compromessa dal prevalere di momentiritentivi, diretti a frenare sul nascere ogni spinta verso la progettazione, a ribaltarla verso un passato consonante con la sua “Stellung”, perché immutevole presente, privo di intervalli coesistentivi variati, senza oltrepassamenti di sorta, nel restare (come dice Tellenbach) indietro a se stesso (Hinter- sich- selbst- zurückbleiben): Binswanger, Maldiney, Buytendijk, Kimura Bin, Cargnello, Blankenburg, Borgna ci hanno  qui offerto suggerimenti fondamentali.

La riflessione su queste profonde concezioni antropoanalitiche e l’incontro quotidiano, ormai ultraquarantennale, con legioni di malati, in clinica, in ospedale, nello studio privato, mi consente di poter affermare che ogni depresso ci testimonia, in modo più o meno eloquente (ciò vale anche per il “depresso mascherato”  di Kielholz) il coartarsi della propria Lebenswelt, la sua solitudine esistenziale (che diventa isolamento ontico), come in un lontano contributo dicevo col compianto, acutissimo, amico Antonio Castellani (“Fenomenologia psicopatologica del “mondo Vissuto”, in Riv. Sperim. Freniatria 95, I, 1971) e in un altro, fortunato, contributo con Luigi Frighi sulla solitudine analizzavo nel 1962.

In verità, nulla ci impedisce di ritenere che accanto all’isolamento ontico (o secondario) esista una solitudine più essenziale (o ontologica). Infatti la solitudine del melanconico, proprio per il confrontarsi di esso con il problema e il peso (il gravame) della colpa, dell’annientamento, dell’irrigidimento, della morte, conduce al ripiegarsi su se stesso in un soliloquio in cui ogni  comunicazione, ogni speranza, ogni apertura è spenta; questo isolarsi, questo chiudersi (improvviso o lentamente avvincente) è un’antinomia in cui si resta inclusi: ci si cade, ci si viene trascinati dentro.

Questa stasi della “corporeità in divenire” (e ciò è stato ben visto da Borgna) non solo si impone a tutto spessore nel momento del presente, non solo mortifica radicalmente la tensione verso il futuro, ma investe anche la ritenzione del passato. Così, ad es., il ripresentarsi mentale monotono e stereotipato (spesso in modo ossessionante) di un evento passato in cui inerisce, insopprimibile, un senso di colpa (Smith), venendo a trovarsi distaccato dal contesto situativo in cui fu indovato, perde i connotati della storicità e dell’oltrepassamento per divenire un’ideologia del presente, senza senso, come una vecchia iscrizione archeologica di cui si è perduta la cifra e che pure sta sempre davanti agli occhi. Se è vero che la protensione verso il futuro o la ritenzione del passato rimandano soprattutto alla loro presentificazione, allora possiamo ben dire che nel malinconico, nell’esistenza malinconica, questa dialettica vitale delle estasi temporali (nel senso di Heidegger) rimane disarticolata in una serie di momenti succedentesi automaticamente, senza più alcuna scansione interiore, senza nodi e scioglimenti. A tal proposito Minkowski e, alcuni decenni dopo, Borgna ci hanno offerto pagine indimenticabili, per acume e umanità.

Vorrei ancora ripetere (mi si perdoni!) che lo slancio personale, disseccato delle sue sorgenti categoriali (temporo – spaziali),  non apre più davanti al soggetto la prospettiva dell’orizzonte (van Peursen, in Buytendijk, 1954) e dell’avvenire, per cui la spes non ha più senso. Ecco allora, inevitabile anche se sovente non espressa, l’idea della morte, o meglio, la sua innominata prospettiva, come soccorso ultimo, come ultima ratio, anche improvvisamente attuata, per colmare il vuoto di un’esistenza che è divenuta meramente un assistere impotente all’approssimarsi della catastrofe, all’anticipazione ostile e indeterminata e gelidamente impersonale, che prende dal passato irrigidito, non più “sorpassato” (Lavalle) ma presentificato e incombente, e dall’avvenire, chiuso, fisso, impersonale, grigio, orrendo (sono aggettivi spesso ricorrenti nel faticato dire di molti miei malati o meglio presenze sofferenti) (cfr. Callieri e Felici 1969).

 

Kurt Schneider osservava che nella depressione melancolica emergono le angosce primordiali dell’uomo; e ciò tutti ben sanno; ma Ludwig Binswanger correttamente aggiungeva che la melancolia è diversa da tali angosce, sia che emerga spontaneamente, sia che venga evidenziata  (o scatenata) dalla depressione. L’angoscia depressiva, ripresa da von Baeyer e von Baeyer Katte in un’acuta monografia del ’71 e da me presentata al pubblico italiano nel ’76, intesa come blocco delle direttive intenzionali costituenti dell’oggettività temporale (quindi in pieno ambito binswangeriano) non costituirebbe il riaffiorare di istanze primordiali dell’uomo, ma sarebbe una “deviazione primaria delle condizioni costitutive dell’esperienza naturale”, “paleotipica” (non direi archetipica, dopo Trevi), per cui il soggetto tenta di dar corpo, attraverso le note tematiche della colpevolezza, dell’autoaccusa, dell’indegnità, dell’ipocondria, ad una sofferenza senza fini e senza sbocchi. Tale angoscia melancolica e depressiva, secondo  Binswanger, non può esser ritenuta la genuina conseguenza dell’heideggeriana  “Geborgenheit”, che porta ad un approfondimento autoconsapevole (ad una “Bewusstheit” e ad una “Besinnung”, secondo Störring) della precarietà della condicio humana (Straus).

Invero è proprio questa matura ed accettata presa di coscienza che è preclusa al melanconico. D’altro canto non si può certo confondere (malgrado tanti attuali clamori farmacologici di vittoria) la “guarigione” della melancolia, ed il ritrovamento di se stesso che ne deriva, (fine dell’eclissi o fine del fare ) con il raggiungimento della reale ipseità sul permanente sfondo dell’essere esposti al nulla dell’angoscia al panico (cfr. Callieri, de Vincentiis, Castellani, pag. 177, 1972). – Dice Binswanger: “ciò che nell’angoscia melancolica c’è non è il Dasein, che nell’angoscia esistenziale resiste e ritrova se stesso, ma è il fuggire nuovamente dappertutto, in cerca di un luogo (non – luogo) dove ci si possa trovare meglio, dove tutto sia più sopportabile”.

 

Si dà all’infuori di ogni durata e quindi, nella sua essenza, assente (che mi pare essere ossimoro e litote a un tempo, come lucidamente indica Piero Trupia – 1992). L’ “Inkludenz” (Tellenbach) che ne consegue, con la solitudine che implica correlativamente, è una realtà esistenziale, clinica, massiccia, univoca, con la quale ogni psichiatra clinico, anche di retrovia ma soprattutto (come sono stato per tanti anni io) di trincea, dovrà prepararsi a fare i conti e a subire pesanti perdite. Invero, qui ci troviamo di fronte alla solitudine del proprio Sé, al sentimento di helplessness (la più radicale derealizzazione), allo “scuotersi delle fondamenta” (shaking of the foundations), di cui con penetrante coscienza teologica, ancor oggi vivissima fra noi, che avemmo la fortuna di ascoltarlo, parlava Paul Tillich (ricordo una sua memorabile lezione del 1953 a New York). Dopo quarant’anni il Suo discorso è ancora attualissimo (con buona pace degli psichiatri riduzionisti ad oltranza ed oggi, almeno all’apparenza, vincitori ab utraque parte Oceani) e mi fa sostenere con profonda partecipazione esistenziale (e professionale) che questa solitudine (primaria) deve essere intesa non più e non soltanto sul piano ontico, cioè dell’esistentività del singolo, costellata di Erlebnisse e di Anreden (eventi e appelli), delle sue vicissitudini personali (come diceva l’indimenticabile psicanalista Silvano Arieti); ma può e deve proiettarsi su un piano categoriale, ontologico, cioè come la kantiana esperienza fondamentale umana rivelante una delle insondabili basi dell’essere.

 

Tornando come d’obbligo per un medico, al piano rigorosamente ontico, esistentivo, tessuto di sentimenti, di eventi, di rapporti, di accadimenti mutevoli e anche contrastanti, debbo sottolineare con insistenza che, in questo contesto esistentivo, i socii sembrano non avere più alcun impatto, sembrano anzi scivolare via come ombre, mute e vane o fastidiose e importune; le persone più intimamente coinvolte sembrano invece dolorosamente destituirsi di realtà alter – egoica, valida, gratificante. Invero sono in genere i familiari ad essere per lui, il melancolico, il kafkiano Gregorio, i primi testimoni di una sua diminuita capacità relazionale e validità dialogica, precipitandolo in un’assoluta dilemmaticità non più illuminata da alcuna Sinngebung. (cfr. Borgna, pag. 30).

Proprio essi, i “familiari”, si fanno simulacri delle sue angosce e vengono investiti da queste in modo inquietante e senza requie. Penso alla sconvolgente angoscia della giovane madre che “sente di non voler più bene al figlioletto, che pur stringe al seno “ (il noto sentimento della mancanza di sentimento, di Kurt Schneider), con un’angoscia melancolica che sconfina dalla sua esistenza per diffondersi nell’ambiente più prossimo, coinvolgendolo in un fatale rovinare, in una colpa incancellabile e suicida (come in questi ultimi tempi sta accadendo nel nostro Paese) per persone di tutto rilievo sociale eppur forse, sull’orlo dell’abisso. E, di più, l’Altro viene coinvolto dal depresso nell’ambito del suo destino, in un abbraccio di morte (si pensi al suicidio allargato: Callieri, Tatarelli). A questo passo fatale (la “parabola agonica” di cui parla con estrema efficacia Borgna) diviene compito immediato di ogni tipo di decifrazione (clinica, biologica, psicoanalitica, antropologica, socio – culturale) la chiarificazione (lucida e spietata) del modo con cui il depresso (per es. il caso di Maria Teresa, di Borgna, a pag. 41) esperisce nel suo “mondo vissuto “ la Stimmung” (cioè l’intonazione) di colpa, la rovina, la sofferenza. Non c’è esperienza depressiva (e Lella Ravasi ce lo indica chiaramente in “La lunga attesa dell’angelo” – Cortina, 1992) che in ultima analisi non presenti possibilità di richiamo per queste tematiche (a volte remote o addirittura assenti, per lo meno a un esame superficiale e affrettato). In questo contesto trova particolare rilievo (almeno per me, sensibile  binswangerianamente alla metafora e alla metonimia) l’analogia tra peso dell’esistenza e gravame della colpa, tra Abgeschlagenheit e Schwermut, ambedue confluenti nel pregnante termine giapponese aida, così ben spiegato da Kamura Bin e dai suoi due acuti traduttori francesi, Bouderlique e Bideaux. Nel vero melancolico il gravame della colpa fa tutt’uno col “blocco magmatico della sofferenza” di cui parla Borgna, ed è intrinsecamente connesso al connotato della sua esistenza che ci consente di comprendere appieno il concetto di “culpa ontologica”, così ben espresso da Weitbrecht nelle ancora insuperate pagine dei suoi “Fondamenti di Psichiatria” trattanti del malinconico: dove la culpa ontologica (in una mia versione molto soggettiva e latina) si confonde con il radicale svuotamento pulsionale, con l’azzeramento dei valori (nell’indimenticabile senso di Max Scheler, specie in “La posizione (o il posto?) dell’uomo nel cosmo”. E la weitbrechtiana “culpa ontologica“ è così semanticamente pregnante da trapassare senza salti nell’ambito “concreto “ della perdita irrimediabile della Zuhandenheit dell’altro, cioè del suo essere – a portata – di – mano: l’altro si fa distante, inaccessibile; e qui Cargnello, con il suo riflettere sulla psicopatologia della distanza, resta tuttora insuperabile “indicatore di via” di indagine, di cum-prehensio.

E se la tristezza è sempre uno stato d’animo in rapporto a qualcuno (carente, assente, deludente) o anche soltanto all’atmosferico (Tellenbach) (si pensi qui al verso mirabile di Charles Beaudelaire: et la tristesse en moi monte comme la mer), il melancolico  è talmente immerso nel suo sentimento di colpa e nella sua solitudine che non può più “godere” (fruire) della capacità di essere triste; è forse questo l’acme del disturbo della coscienza melancolica, da non confondersi col “sentimento della mancanza di sentimento”, che – memori di Kurt Schneider – non possiamo non ricordare qui. E con questa incapacità scompare anche la capacità dell’attesa (Callieri): è la “tavola sparecchiata” di Paul Claudel, è il post – festum (ato no matsuri) di Kimura Bin.

Non posso qui non evocare a tutto spessore l’enorme portata del pensiero  kierkegaardiano  per la riflessione psicopatologica mitteleuropea. Il peculiare modo di esperire la morte nel depresso (e non raramente di attuarla) richiama in pieno la kierkegaardiana mors ontologica. Il suo continuo intenzionare la morte, più o meno chiaramente consaputo, costituisce il leit – motiv dell’esperienza depressiva.

La mortificazione dell’esistenza melanconica, saturnina nel vero senso del panovskiano termine, mi sembra una vera e propria caratteristica di base, che ne trascende le singole qualificazioni esistentive. Nel depresso (meglio nel melancolico) la morte non è tanto il destino inerente al singolo, come suo polo terminale, quanto piuttosto è una morte che trascende quella singola esistenza per assurgere a momento categoriale, che informa a tutto spessore l’esistenza, heideggerianamente specificandola, anzi qualificandola.

Questo della morte è il tratto che illumina con maggiore efficacia e tacita incombenza(clinicamente da cogliere! pena l’accusa di omicidio colposo) ogni profonda zona d’ombra della vissuta vita melancolica (vengono in mente Cesare Pavese, Bruno Bettelheim, e, soprattutto, Serghei Essenin e Vladimir Maiakowski…ma l’elenco sarebbe interminabile, tanto la falce della melancolia è attiva e inesorabile), vita melancolica che non risparmia affatto l’infanzia (cfr. C.A: Kaplan: Depression in childhood. Brit. Med. J. 300, 1260, 1990.

E qui ancora, imperiosamente emergente, una mia impressione clinica: nel melancolico cade la “donazione di senso” (Sinngebung), l’investimento di significato nell’ambito della realtà, degli ”altri”; e cade, questa  donazione di senso, proprio perché svanisce in lui la consistenza delprogetto di mondo, che si dissolve in un’opacità fitta e informe, come una nebbia umida: il melancolico è isolato in questa nebbia che lo avvolge, a volte inattesa, e vi rabbrividisce dentro, arrestandosi, bloccato in ogni suo movimento di ec- sistere, di uscirne; non sa neppure da che parte muovere.  E attraverso questa nebbia, forse smorzato dal suo spessore, ogni nostro messaggio dialogico di disponibilità e di aiuto o non arriva o resta inefficace.

Tutto scivola, tutto scola via tra le nostre  “dita” che tentano di afferrare; ci è negata ogni presa efficace sul melancolico; la sua solitudine interiore lo rende inaccessibile; qui incombe totalmente il marceliano “mon temps n’est pas le vôtre”.

Questa solitudine del melancolico (non ho mai qui usato il termine “autismo” – a buon intenditor poche parole!) è proprio la “noche obscura de l’alma” di Giovanni della Croce, è il suicidio (non per morire, ma perché sono impotente a vivere, come hanno ben detto Tullio Bazzi e Renato Giorda).

Questa Anschauung antropologica della modalità psicotica depressiva dell’esistenza è, certo, essenziale per la sua comprensione, ma da essa trapela ben poco posto per l’incontro terapeutico. D’altronde l’incontro, pur se destinato allo scacco, continua a porsi allo psichiatra di qualunque estrazione ideologica o teoretica come invito ineludibile a proseguire su una via che non sia solo quella (importantissima ma rischiosamente riduttiva) del farmaco. Qual progetto psichiatrico potrà aiutare il melancolico a uscire da un tal vicolo cieco? A ripopolare il suo mondo di oggetti svaniti nei loro richiami, nella loro pregnanza di significati, di ricordi, di evocazioni?

Tanti anni fa Frighi ed io, occupandoci di psicopatologia della solitudine, osavamo dire che “la solitudine diventa espressione di una grande potenzialità d’amore che non è stata corrisposta”.

Qui per me sta oggi tutto il dilemma della depressione e della “caduta di senso” che la connota, come eclissi e come crisi.

 

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**Relazione tenuta al convegno:

LIMITI E LIBERTA’ NELL’ORIZZONTE ESISTENZIALE -IL RUOLO DELLE EMOZIONI

CNR – Roma, 14.10.2005