Published On: 24 Aprile 2014Categories: La Rivista

Di Paolo Quattrini

INformazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia”, n°9-10, gennaio-dicembre 2007, pagg. 2-5, Roma

 

Il lavoro gestaltico si basa sulla tecnica della sedia vuota[1], la quale si appoggia appunto sul vuoto: sull’altra sedia non c’è nessuno, ma si fa come se ci fosse qualcuno, si immagina che ci sia qualcuno e che risponda.

Il fatto che si immagini qualcuno è una fantasia, ma le parole che la persona dice sedendosi  al posto della persona immaginata sono una realtà.

Si tratta di quello che tecnicamente si chiama una simulata: ora, che senso ha psicologicamente parlando recitare una parte, mettere in scena, drammatizzare un avvenimento? Perché la simulata non risulta finta, e quindi priva di valore evocativo? E’ una domanda che ci si pone di rado nella psicoterapia, dato che l’esperienza insegna che le simulate funzionano; quindi perché chiedersi di più?

O. Kernberg sostiene che il capirsi degli esseri umani è dovuto principalmente al fatto che le situazioni inducono posizioni complementari[2]: una persona che soffre non è capita per via che l’altro si identifica con il suo dolore, ma piuttosto perchè assume una posizione complementare, come quella della consolazione[3]. Partendo da questo punto di vista si può immaginare come sia la situazione stessa che induce uno stato d’animo: di fronte a una persona che rappresenta una scena emozionante si sente inevitabilmente qualcosa di inerente a questa, complementare o simmetrico che sia, e se ci si lascia trascinare dal proprio stato d’animo si può mettere in scena qualcosa di emozionalmente plausibile, che è quello che si proverebbe se ci si trovasse davvero in quella parte.

Questo già offre una spiegazione accettabile del senso di una simulata in psicoterapia: in ogni caso bisogna anche tenere presente che, a differenza dell’identificazione, l’empatia permette di sentire cosa prova l’interlocutore senza confondersi con lui, in modo da poter mettere in scena interazioni emozionalmente vive, differenziate[4] e fortemente evocatorie: il teatro dimostra da tempo immemorabile il fatto che un buon attore lascia che il personaggio emerga da solo sulla scena, anche se deve prestargli il suo corpo per esistere.

Un buon attore non fa finta di, fa come se fosse, cioè non copia forme senza sostanza, ma si mette nei panni del personaggio e lo lascia vivere, vale a dire che si lascia trascinare dall’esperienza e fa gesti e dice parole prima di pensarci sopra. Così fanno in genere nelle drammatizzazioni anche i bambini, e così fanno le persone che mettono in scena simulate, dato che non avendo un copione dettagliato, sono costrette a inventarsi la parte.

Ora, la sedia vuota non fa altro che simulare il conflitto interiore della persona, il dramma cioè che avviene nella sua vita intima e che viene normalmente amministrato con modalità acquisite dall’infanzia, le quali spesso non sono congrue al set di valori della persona adulta.

Come le istituzioni dei Paesi aggiornano periodicamente le loro leggi, cioè il loro set di valori, ogni persona avrebbe la necessità di farlo una volta diventato adulto, e quindi indipendente dai genitori, dal loro mondo e dai loro costumi: rimanere ancorati al copione dell’infanzia può provocare conflitti laceranti con un presente che di solito è molto differente. Bisogna cambiare le storie che si scrivono eadattarle al qui e ora, se non si vuole ammuffire in mondi obsoleti, e siccome l’immaginazione è lalonga manus dell’azione, nel senso che i progetti si possono cancellare e le azioni no, quando ci si avventura nello sconosciuto vale la pena di immaginare prima cosa c’è più in là: se la strada è bloccata, attraverso lo strumento della simulata si cerca di passare il blocco e si progetta un proseguimento possibile.

Come nella costruzione degli edifici, anche nella costruzione delle storie il progetto aiuta, permettendo di valutarne la possibilità e la pericolosità: poi la storia viene utilizzata in qualche modo, e la vita va avanti.

Utilizzata non significa naturalmente messa in pratica: l’immaginazione non è un’identità e le situazioni si svolgono in maniera sempre diversa.

Una simulata d’altra parte è un’esperienza vera e propria, con una sua autonomia, non è più determinata dall’immaginazione o dal ricordo. Anche se parte da un ricordo infatti, è fatta da altre[5]persone, in un altro posto… ormai con quel ricordo c’entra poco e niente.

La messa in scena è appoggiata su una finzione, ma una volta che si partecipa come attore, regista o spettatore, l’esperienza che se ne ha è assolutamente reale, e qui c’è un passaggio fondamentale per la tecnica psicoterapeutica: si vede come l’immaginario è uno strumento che permette di far esistere qualcosa di reale pur non essendo in sé reale. L’immaginazione non è realtà, ma il prodotto dell’immaginazione è pienamente reale.

Il lavoro che si fa in psicoterapia non consiste nel risolvere problemi, ma nel trovare il modo di andare avanti a occhi aperti e fare esperienza del mondo: si considera infatti che il problema del paziente non sia l’avere un problema, ma lo stare fermo su quel problema, e quello che si cerca di fare nella relazione d’aiuto di orientamento esistenzialista è aiutare la persona ad andare avanti, invece di rinunciare al resto della vita per stare dietro a quel problema. Qui il fatto principale è che la persona è bloccata nelle sue storie: per rimetterle in moto si tratta di entrare sul piano dei comportamenti e riscriverle in modo differente, e in questo le simulate sono uno strumento efficiente.

La difficoltà infatti è che i comportamenti perché sono pericolosi sul piano sociale: sono la materializzazione degli istinti, e sono strettamente legati alle emozioni Ad esempio, l’istinto territoriale, nella sua fase difensiva è la rabbia: di solito le persone hanno pochissime opzioni per la gestione della rabbia, mentre per vivere decentemente è importante avere un’articolazione comportamentale che la possa gestire in tante maniere differenti.

Nella relazione d’aiuto la funzione dell’operatore è scoprire almeno un altro modo di gestire le emozioni, in modo da poter supportare il movimento della persona, è quindi tecnicamente importante fornire al paziente l’occasione di sperimentare.

Le persone fanno spesso confusione a proposito del fatto che siccome “mi piace non piace” è la bussola dell’esperienza, questo significhi che si devono dirigere verso il “mi piace”. Ma una bussola indica il nord e il sud, mica dove deve andare il viaggiatore! Quelli sono solo i due poli di riferimento per il movimento, poi si va dove si sceglie responsabilmente di andare, che è sempre un luogo che un po’ piace un po’ non piace: per costruire una storia bisogna riconoscere il sapore dei comportamenti, cucinarla combinando ingredienti e sapori… Combinando l’amaro, il dolce, il salato, l’acido, si costruisce un piatto: combinando il dolore, il piacere, la paura, l’angoscia, la soddisfazione, si costruisce una storia.

Le storie vanno costruite con il senso, non solo con il significato: il senso è un miscuglio di mi piace e non mi piace… mi attira e mi spaventa. Pericoloso, salutare, strano e tante altre cose insieme fanno l’edificio dell’esperienza e danno qualità alla vita. La qualità della vita la si costruisce attraverso comportamenti non adottati a casaccio, ma usati responsabilmente come si usano gli ingredienti in cucina. Una storia è una buona storia se la si accompagna sul piano del sapore, se si amalgamano piano piano i vari comportamenti fino a farne un insieme almeno gradevole. Una simulata si può paragonare a un assaggio: è difficile cucinare senza assaggiare.

Per rovinare un piatto basta un po’ di sale in più o in meno: bisogna rispettare la logicadell’esperienza, che ha leggi proprie, e che non possono essere confuse con le ideologiesull’esperienza. L’esperienza funziona per conto suo, e bisogna rispettare questo funzionamento, che è poi semplicemente la Natura.

La relazione d’aiuto è complicata, ma è possibile: non si tratta infatti di risolvere i problemi delle persone, cosa generalmente infattibile, ma di aiutarle a entrare dentro alle loro storie, andando al nucleo, cioè i comportamenti, per costruire nuove storie.  In questo senso una simulata è una avventura vera, perché il vissuto emozionale delle persone non è diverso da quello della vita di tutti i giorni.

 

 

 

 

 



[1] Dove vanno posizionati gli interlocutori interni del paziente, in modo da dar loro una

dimensione esterna e quindi raggiungibile con l’interazione.

[2] Otto Kernberg

[3] Del resto infatti l’esperienza di sentirsi capiti deriva dal fatto che gli altri assumano l’atteggiamento reciproco: se l’altro consola è convincente, se invece soffre, non si può mai sapere di che.

[4] Invece di rappresentare sempre e solo se stessi in tutte le salse.

[5] Nel caso di un lavoro di gruppo.